LA BATTAGLIA
DI LEPANTO
La fotta della Lega Santa
Secondo la descrizione data dal Summonte l'armata della lega santa era
divisa in 4 parti, Corno destro, Corno sinistro, la parte centrale
o Battaglia e la riserva o Soccorso.
Il centro dello schieramento cristiano cattolico si
componeva di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8
galee genovesi, 7 galee toscane sotto le insegne pontificie, 3 maltesi, 1 sabauda,
per un totale di 62 galee e 2 galeazze. Lo comandava Don Juan de Austria (Don
Giovanni d'Austria) Comandante generale dell'imponente flotta cristiana:
ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto Carlos I de España (Imperatore Carlo V) e
fratellastro del regnante Felipe II de España (Filippo II) aveva già dato ottima prova di sé
nel 1568 contro i corsari
barbareschi. Con lui a bordo Francesco Maria II della Rovere - figlio
ed erede del duca Guidobaldo
II Della Rovere - Capitano generale degli oltre 2.000
soldati volontari provenienti dal Ducato d'Urbino. Per ragioni di prestigio
affiancavano la Real spagnola:
la Capitana di Sebastiano
Venier, settantacinquenne Capitano generale veneziano,
la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio
pontificio, la Capitana di Ettore Spinola, Capitano generale genovese,
la Capitana di Andrea
Provana di Leinì, Capitano generale piemontese,
l'ammiraglia Santa Maria della Vittoria del priore di Messina Pietro Giustiniani,
Capitano generale dei Cavalieri
di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2
galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane sotto le
insegne pontificie, e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al
comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano (da
non confondere con l'omonimo
doge veneziano).
Il corno destro
era invece composto di 25 galee
e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2
sabaude e 2 toscane sotto le insegne pontificie, per un totale di 53 galee e 2
galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.
Le spalle dello schieramento
erano coperte dalle 30 galee di Alvaro de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e
napoletane, 12 veneziane, 3 toscane sotto le insegne pontificie, 2 genovesi.
L'avanguardia, guidata da Giovanni de Cardona si componeva di 8 galee: 4
siciliane e 4 veneziane.
In totale, la Lega schierò in battaglia una flotta di 6 galeazze e
circa 204 galere. A bordo erano imbarcati non meno di 36.000 combattenti, tra
soldati (fanteria al soldo del re di Spagna, tra cui 400 archibugieri del Tercio de Cerdeña,
pontificia e veneziana), venturieri e marinai, verosimilmente tutti armati
di archibugio.
A questi si aggiungevano circa 30.000 galeotti sferrati, ovvero tutti i
rematori, schiavi esclusi, cui venivano distribuite spade e corazze per
prendere parte alla mischia sui ponti delle galere. Quanto all'artiglieria, la
flotta cristiana schierava, approssimativamente, 350 pezzi di calibro
medio-grande (da 14 a 120 libbre) e 2.750 di piccolo calibro (da 12 libbre in
giù).
La flotta turca schierata a Lepanto, reduce dalla campagna navale
che l'aveva impegnata durante l'estate, era verosimilmente forte di 170-180
galere e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e
brigantini corsari[26]. La forza combattente, comprensiva
di giannizzeri (in
numero tra 2.500 e 4.500), spahi e marinai, ammontava a circa
20-25.000 uomini[24]. Di questi, sicuramente armata
d'archibugio era la fanteria scelta dei giannizzeri, mentre la gran parte degli
altri combattenti era armata di arco e frecce[24]. La flotta
ottomana, inoltre, era munita di minore artiglieria rispetto a quella
cristiana: circa 180 pezzi di grosso e medio calibro e meno della metà degli
oltre 2.700 pezzi di piccolo calibro imbarcati dal nemico.
I turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco[28],
all'ala destra, mentre il comandante supremo Müezzinzade Alì Pascià
(detto il Sultano) al centro conduceva la flotta a bordo della sua
ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era
stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah. Infine
l'ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì, un apostata
di origini calabresi convertito all'Islam
(detto Ucciallì oppure Occhialì , presiedeva all'ala sinistra;
le navi schierate nelle retrovie erano comandate da Murad Dragut (figlio
dell'omonimo Dragut Viceré
di Algeri e Signore di Tripoli che era stato uno dei più tristemente noti pirati
barbareschi).
Don Giovanni decise di lasciare
isolate in avanti, come esca, le 6 potentissime galeazze veneziane, che per
prime aprono il fuoco. Essendo le galeazze difficilmente abbordabili, sia per
la loro notevole altezza e sia per i cannoni disposti a prora, lungo i fianchi
e a poppa. Il comandante aveva inoltre deciso di togliervi un gran numero di
spadaccini e sostituirli con archibugieri, i quali crearono subito gravi danni
alla flotta turca. La potenza di fuoco della flotta cristiana era infatti più
forte rispetto a quella nemica, grazie agli armamenti veneziani che negli anni
precedenti erano divenuti sempre più poderosi, mentre i turchi non erano
riusciti a tenere il passo con le innovazioni, ritrovandosi quindi con
un'artiglieria meno numerosa e potente. La potenza di fuoco delle galeazze si
dimostrò devastante, con l'affondamento/danneggiamento di circa 70 navi e
distruzione dello schieramento iniziale della flotta ottomana.
Alì non tentò l'abbordaggio delle
galeazze, definite dei veri e propri castelli in mare da non essere da
umana forza vinti,ma decise infine di superarle e di scagliare tutta la sua
flotta in uno scontro frontale, mirando unicamente all'abbordaggio della nave
di Don Giovanni per provare a ucciderlo demoralizzando così la flotta della
Lega Cristiana. Ed essendo in inferiorità numerica (167-235) tentò di
circondarla, utilizzando la tattica navale classica.
Con il vento a favore e
producendo un rumore assordante di timpani, tamburi e flauti i turchi cominciarono
l'assalto alle navi della Lega cristiana che erano invece nel più assoluto
silenzio. Improvvisamente intorno alle ore 12 il vento cambiò direzione: le
vele dei turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.
Quando i legni giunsero a tiro di cannone delle galeazze i
cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Don Giovanni innalzò lo stendardo di Lepanto con
l'immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i
combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da papa Pio V per
la crociata e
i forzati liberati dalle catene e nell'animazione del momento, Giovanni
d'Austria ordinando di dare fiato alle trombe, sulla piazza d'armi della sua
galera con due cavalieri, si mise a ballare a vista di tutta l'armata una
concitata danza, chiamata dagli Spagnoli la gagliarda.
La prima azione della battaglia da parte della Lega fu l'ordine di
Doria di prendere il largo allontanandosi dal resto della flotta, al vedere ciò
Alì Pascià ritenendo che fosse nell'intenzione del Doria abbandonare il campo
di battaglia gli fece mandare un tiro di cannone a cui però il Doria non
rispose e Giovanni d'Austria vedendo ciò fece rispondere dalla sua galera con
un tiro di cannone in segno di accettazione della sfida.
Don Giovanni d'Austria perciò
puntò fulmineamente diritto contro la Sultana di Alì che riuscì a evitare il
fuoco di fila delle bordate delle galeazze, poste circa un miglio più avanti
rispetto alla flotta della coalizione e i cui proiettili erano stati studiati
in modo che uscendo dai fusti dei cannoni si aprissero in due emisfere unite da
catene che andavano a spezzare le alberature delle galee ottomane , oltrepassandole
per attaccare le galee nemiche. Il reggimento di Sardegna diede per primo
l'arrembaggio alla nave turca, che divenne il campo di battaglia: i musulmani a
poppa e i cristiani a prua.
Per i cristiani gli scontri
coinvolsero all'inizio il veneziano Barbarigo, alla guida dell'ala sinistra e
posizionato sotto costa. Egli dovette parare il colpo del
comandante Scirocco, impedire che il nemico potesse insinuarsi tra le sue
navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ebbe solo un
parziale successo e lo scontro si accese subito violento. La stessa galea di
Barbarigo diventò teatro di un'epica battaglia nella battaglia con almeno due
capovolgimenti di fronte all'infuriare della quale il Barbarigo si alzò la
celata dell'elmo per poter impartire gli ordini con più libertà quando fu
colpito a un occhio da una freccia nemica[33]. Le retrovie
dovettero correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la disfatta: ma
grazie all'arrivo della riserva guidata dal Marchese di Santa Cruz le sorti si
riequilibrarono e così Scirocco viene catturato, ucciso e immediatamente
decapitato.
Al centro degli schieramenti Alì
Pascià cercò e trovò la galea di Don Giovanni d'Austria, la cui cattura avrebbe
potuto risolvere lo scontro. Contemporaneamente altre galere impegnarono Venier
e Marcantonio Colonna.
Molti furono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galera
toscana Fiorenza dell'Ordine
di Santo Stefano fu quasi interamente ucciso, eccetto il suo
comandante Tommaso de' Medici con
quindici uomini. Al terzo assalto i sardi arrivarono a poppa. Don Giovanni fu
ferito a una gamba. Più volte le navi avanzarono e si ritirarono, Venier e
Colonna dovettero disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Giovanni che
sembrava avere la peggio assieme all'onnipresente Marchese di Santa Cruz. Alla
sinistra turca, al largo, la situazione era meno cruenta ma un po' più
complicata. Giovanni Andrea Doria disponeva di poco più di 50 galee, quasi
quante quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul corno opposto ma davanti a
sé trovò 90 galere, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani
e oltretutto in un'area molto più ampia di mare aperto; per questo pensò a una
soluzione diversa dallo scontro diretto. Giovanni Andrea Doria infatti, a un
certo momento della battaglia, cominciò una manovra di allargamento verso il
mare aperto del corno al suo comando, in reazione a un'analoga manovra del
corno sinistro della flotta ottomana, che minacciava di aggiramento il resto
della flotta cristiana.
Il ruolo cruciale di Gianandrea Doria è stato spesso oggetto
di disputa gli
avversari dei genovesi insinuarono che egli si fosse defilato o per preservare
il proprio naviglio o perché obbediva ancora agli ordini di Filippo II o, si
disse, perché si era messo d'accordo con Uluč Alì per ridurre al minimo i danni
alle loro imbarcazioni (anche il comandante barbaresco come il genovese
affittava le galere al suo Signore). Altri lo difendono definendo la sua
iniziativa improntata a una grande lucidità tattica; altri ancora non prendono
posizione, descrivendo semplicemente gli eventi. La manovra del Doria aprì un
varco fra il centro e il suo corno del quale approfittò rapidamente il suo
diretto avversario. Uluč Alì si insinuò fra le due squadre cristiane, attaccò
un gruppo di galee dalmate tra cui la "San Trifone" di Cattaro
comandata dal sopracomito Girolamo Bisanti lì rimaste a sostenere l'impeto
nemico in maniera da non consentirne l'aggiramento.
Con il vento in poppa, assalì da dietro
la Capitana (ossia l'ammiraglia) dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro Giustiniani,
priore dell'Ordine. La Capitana, circondata da sette galere nemiche fu
catturata. Uluč Alì si
impossessò del vessillo dei Cavalieri di Malta, fece prigioniero Giustiniani e
prese a rimorchio la sua galea. Oltre la Capitana di Malta, anche
la Fiorenza e la San Giovanni (galere toscane della flotta
papale), e la Piemontesa (della squadra sabauda), circondate da un nugolo di
galere turchesche, caddero nelle mani di Uluč Alì. L'analisi del comportamento
del Doria è ancor oggi oggetto di disputa. Secondo Nicolò Capponi,
l'accusa che Doria fosse riluttante a rischiare le sue galere è smentita dal
fatto che più della metà erano impegnate nelle altre divisioni. Quanto alla
tesi di un accordo clandestino tra il genovese e Uluč Alì essa non tiene conto
del fatto che i due comandanti non potevano in alcun modo prevedere che si
sarebbe trovati l'uno di fronte all'altro anzi, stando ai resoconti delle spie
ottomane, la presenza di Doria non era nemmeno prevista
Viste le circostanze, Doria non avrebbe potuto reagire diversamente
di fronte al tentativo di accerchiamento di Uluč Alì. Vero è che la sua manovra
aggravò lo svantaggio numerico del corno destro, dato che alcune galere, per lo
più veneziane, si staccarono dal troncone principale, e che Uluč Alì,
invertendo improvvisamente la rotta, puntò dritto verso le ritardatarie. Pare
che Doria non abbia notato subito questa mossa, forse perché l'avversario si
muoveva nascosto da una coltre di fumo, ma quando capì quanto stava per
accadere reagì rapidamente: virò in direzione est e si diresse vero il nemico.Capponi
prosegue descrivendo lo sviluppo dell'azione, e sottolineando come la
contromanovra del Doria, unita all'intervento della riserva del centro
cristiano, abbia provocato l'accerchiamento delle galee di Uluč Alì, il quale
riuscì a fuggire abbandonando tutte le unità che aveva catturato, tranne una.
Alessandro Barbero, al contrario, sottolinea che “Uluč Alì dimostrò di
saperla molto più lunga” del Doria e che la manovra di allargamento del corno
destro già all'indomani della battaglia fece circolare all'interno della flotta
il sospetto che l'ammiraglio genovese volesse sottrarsi al combattimento e che
tale sospetto non si è più dissipato fino a oggi. Particolarmente duro fu il
giudizio della Santa Sede: Pio V minacciò di morte Doria se si fosse presentato
a Roma, dicendo che per il momento faceva meglio a starsene lontano. Secondo il
Papa, Gianandrea era “corsaro et non soldato” e il re di Spagna avrebbe fatto
meglio a sbarazzarsi di lui.Il pontefice espresse direttamente a Filippo II le
sue riserve su Gianandrea suggerendogli di recedere dall'asiento (il contratto
di locazione delle galee del Doria). La galera del Doria e le altre unità del
suo corno avevano subìto meno perdite di tutto lo schieramento cristiano, cosa
che colpì negativamente quasi tutti i comandanti nel raduno generale che seguì
la battaglia, alimentando le voci e i sospetti.
Tuttavia, sempre secondo quanto scrive Barbero, “almeno qualche
testimone attribuisce a Gianandrea motivazioni più nobili”. In una lettera
scritta da Messina l'8 novembre 1571, don Luis Requesens informò Filippo II di aver
parlato col Doria poco prima dell'inizio della battaglia. Questi gli anticipò
di volersi allargare verso il mare aperto per lasciare più spazio di
schieramento e di manovra al resto della flotta, e si lamentò del fatto che non
tutte le galere del suo corno tenevano il passo. A chi faceva “maliziosamente
notare che la galera del Doria non aveva subito troppi danni durante la
battaglia” don Luis replicava “che non si può morire a dispetto di Dio”, ovvero che non si
devono necessariamente sostenere perdite consistenti in una vittoria, anzi.
Barbero cita anche il giudizio di Bartolomeo Sereno secondo il quale Doria
aveva fatto bene ad allargarsi per evitare di essere aggirato dalla numericamente
superiore squadra di Uluč Alì.
Quest'ultimo tuttavia aveva manovrato ottimamente, mettendo in
difficoltà il genovese e inducendolo a portarsi troppo al largo, lasciando
indietro diverse galere (alcune della quali, secondo Sereno, rimasero indietro
apposta disubbidendo agli ordini dell'ammiraglio e invertirono al rotta di
propria iniziativa dirigendosi verso il centro) e sfilacciando il suo
schieramento. Barbero sottolinea infine che quando Uluč Alì si insinuò nel
varco aperto fra il corno destro e il centro, il Doria invertì la rotta “col
proposito ormai superato dagli eventi di portarsi alle spalle del nemico” ma
arrivò tardi per salvare le galere ritardatarie. Alcuni storici navalisti
stranieri si limitano a descrivere la manovra di Doria come un movimento di
allargamento effettuato in risposta al tentativo di accerchiamento di Uluč Alì,
senza proporre tesi particolari sul suo comportamento. Jan Glete, ad esempio,
riprendendo l'analisi di J.F. Guilmartin, sottolinea come Alì Pascià intendesse
aggirare su entrambi i fianchi la flotta della Lega, e come i movimenti delle
squadra del Doria e di Uluč Alì verso il mare aperto fossero la conseguenza di
questo tentativo. I turchi di Uluč Alì alla fine riuscirono a incunearsi fra il
centro e la destra cristiana, ma furono “prima bloccati dalla squadra cristiana
di riserva, e poi attaccati da quella rimasta al largo”, cioè dal corno del
Doria.
L' epilogo
Al centro, il comandante in capo ottomano Müezzinzade Alì Pascià,
già ferito, cadde combattendo. La nave ammiraglia ottomana fu abbordata
dalle galee toscane Capitana e Grifona e, contro il volere di Don Giovanni, il
cadavere dell'ammiraglio ottomano
Alì Pascià fu decapitato e la sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola.
La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire
il morale dei turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le
navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Il
teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti
in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano
trascorse quasi cinque ore e il giorno volgeva ormai al tramonto quando infine
la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Don Giovanni d'Austria
riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e
inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa
vittoria: i turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117
vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate, inoltre 30.000
uomini persi tra morti e feriti, altri 8.000 prigionieri. Inoltre vennero
liberati 15.000 cristiani dalla schiavitù ai banchi dei remi. I cristiani
liberati dai remi sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla
Santa Casa di Loreto dove offrirono le loro catene alla Madonna. Con queste
catene furono costruite le cancellate davanti agli altari delle cappelle.
Gli Ottomani avevano
salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e se tatticamente si trattò di una
decisiva vittoria cristiana, la dimensione della vittoria strategica è
dibattuta: secondo alcuni la sconfitta segnò l'inizio del declino della potenza
navale ottomana nel Mediterraneo.
Altri fanno notare che la flotta turca si riprese rapidamente,
riuscendo già l'anno successivo a mettere in mare un grosso contingente di
navi, grossomodo equivalente a quelle messe in campo dalla Lega. Queste flotte
erano però meno armate e addestrate delle precedenti, e dopo Lepanto la flotta
turca evitò a lungo di ingaggiare grandi battaglie, dedicandosi invece con
successo alla guerra di
corsa e al disturbo dei traffici nemici. Anche da parte
cristiana si riaffermò una pirateria attiva. Dopo Lepanto gli occidentali
ebbero a disposizione migliaia di prigionieri che furono messi ai remi
assicurando, per diversi anni, un motore nuovo alle loro galere. La
vittoriosa guerra di
Candia, alla metà del XVII secolo, mostra che il vigore delle forze
turche era ancora temibile nel Mediterraneo orientale. Tuttavia con l'inizio di
una lunga serie di guerre con la Persia, che proseguirono nel Caucaso e
in Mesopotamia per
tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta
della Sublime porta fu
messa in parziale disarmo e ridotta.
Inoltre la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile
a quella veneziana fino alla fine del XVIII secolo. I morti di nobiltà
cattolica vennero sepolti nella chiesa dell'Annunziata a Corfù (spostati
dopo il bombardamento dei tedeschi del 13 settembre 1943 al cimitero
cattolico di Corfù) mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto
Corfioti) furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata "Dei
Vechi" e quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù
denominata fin da allora "Dei martiri". Molti prigionieri ottomani,
in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono
uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in
precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi
rapidamente. Quindi le navi fecero rientro a Napoli. La bandiera della nave ammiraglia
turca di Alì Pascià, presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la
"Capitana" e la "Grifona", si trova a Pisa, in quella che
era la chiesa di
quell'ordine.
Gli armamenti
Lo schieramento cristiano vinse soprattutto grazie alla superiorità
dell'equipaggiamento, che compensò la mancanza di esperienza delle truppe
imbarcate],
decisivo fu anche il vantaggio insito nella collocazione avanzata delle
galeazze e l'enorme sproporzione nel numero dei pezzi d'artiglieria . Inoltre la
fanteria era dotata di un superiore armamento individuale: i suoi soldati
potevano contare sugli archibugi,
(come la compagnia di tiratori scelti degli oltre 400 archibugieri di Sardegna), mentre
quelli turchi erano ancora armati con archi e dardi, mazze, scuri, spade e
giavellotti. La maggior parte dei soldati cristiani indossava corazze, sia del
tipo normalmente utilizzato dalla fanteria, sia di modelli (molto diffusi tra i
Genovesi) che potevano essere tolte rapidamente se si doveva poi nuotare. I
soldati ottomani, e ancor di più quelli barbareschi, preferivano invece
indossare armature leggerissime, spesso in cuoio, oppure non indossarle
affatto, in modo che se fossero caduti in mare sarebbero stati più liberi nei
movimenti.
Il vascello più importante dello schieramento cristiano era
la galeazza veneziana.
Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a
coprire i banchi dei rematori. Parzialmente corazzata e pesantemente
armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà
possono trarre in inganno chi non le conosce, facendole confondere con vascelli
da carico: cosa che tra l'altro capitò ai turchi. Solo sei di queste unità
rinforzavano lo schieramento cristiano ma furono devastanti sia per le galere
nemiche sia per il morale dei loro equipaggi. Con la galeazza si raggiunse
l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo essa ne rappresentò
anche il canto del cigno. Le galee con la loro propulsione a remi furono
progressivamente sostituite da velieri a vela quadra e quindi
progressivamente abbandonate.
Le artiglierie pesanti
utilizzate all'epoca sui vascelli possedevano un buon rapporto
gittata-efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti.
Naturalmente quel rapporto peggiorava notevolmente puntando il pezzo su singole
galee con ampia libertà di manovra.
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento "in caccia". Si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e generalmente più potente e pesante di quelli utilizzati dai vascelli coevi. Il pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi antiuomo. Le galere grosse e le capitane talvolta avevano pezzi girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento "in caccia". Si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e generalmente più potente e pesante di quelli utilizzati dai vascelli coevi. Il pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi antiuomo. Le galere grosse e le capitane talvolta avevano pezzi girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
L'armamento d'artiglieria delle
galere ottomane, e ancor di più di quelle barbaresche, era complessivamente più
leggero, poiché i loro capitani facevano grande affidamento sulla velocità,
sull'agilità e sulla possibilità di muoversi in acque basse, e quindi non
intendevano appesantire i loro scafi. Spesso le loro galere avevano un singolo
grosso cannone in caccia (di calibro e potenza superiore a quello delle galere
della Lega), e pochissimi pezzi d'accompagnamento. Sia la flotta cristiana sia
quella musulmana prediligevano le costose, ma leggere e sicure, artiglierie in
bronzo, rari i pezzi in economica (ma pesante e pericolosa) ghisa, per lo più
fabbricati a Brescia e
nelle Fiandre.
Per quel che riguarda le armi
di piccolo calibro, all'importanza della gittata è lecito pensare che si
debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali
nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato. Non
bisogna sottovalutare l'arco composito (o arco turchesco appunto) che era
l'arma più diffusa tra la fanteria di marina ottomana, esso aveva una gittata e
una precisione superiore a quella dell'archibugio, oltre che una velocità di
ricarica superiore; si trattava però di un'arma meno letale (moltissimi furono
i soldati cristiani feriti, ma non uccisi, e che continuarono a combattere), e
non in grado di perforare le pesanti corazze spagnole. Per questo motivo molti
giannizzeri erano già stati armati con archibugi e moschetti, di qualità
leggermente inferiore però a quelli prodotti in Italia e in Spagna, e con
polveri meno efficienti.
Il significato religioso
Come già per la Battaglia di Poitiers e
la futura Battaglia di
Vienna, la battaglia di Lepanto ebbe un profondo significato
religioso. Prima della partenza, il Pontefice Pio V benedice lo stendardo della
Lega raffigurante su fondo rosso il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo
e sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces, quindi lo consegna al
Duca Marcantonio Colonna di Paliano: tale
simbolo, insieme con l'immagine della Madonna e la scritta "S. Maria
succurre miseris", issato sulla nave ammiraglia Real, sotto il comando del
Principe Don Giovanni d'Austria, sarà l'unico a sventolare in tutto lo
schieramento cristiano all'inizio della battaglia quando, alle grida di guerra
e ai primi cannoneggiamenti turchi, i combattenti cristiani si uniranno in una
preghiera di intercessione a Gesù Cristo e alla Vergine Maria.
Anche se l'annuncio della vittoria giungerà a Roma ventitré giorni
dopo, portato da messaggeri del principe Colonna, si narra che il giorno stesso
della battaglia san Pio
V ebbe in visione l'annuncio della vittoria nell'ora di
mezzogiorno e che, dopo aver esclamato: "sono le 12, suonate le campane,
abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine Santissima", dette
congedo agli astanti, tra i quali era presente il cardinale Cesi ; da allora
continua la tradizione cattolica di sciogliere le campane di tutte le chiese
alle 12 in punto. La vittoria fu attribuita all'intercessione della Vergine
Maria, tanto che Papa Pio V decise di dedicare il giorno 7 ottobre a Nostra Signora della Vittoria successivamente
trasformata da Gregorio
XIII in Nostra Signora del Rosario,[7] per celebrare l'anniversario della
storica vittoria ottenuta, si disse, per intercessione dell'augusta Madre
del Salvatore, Maria.
Le conseguenze
La battaglia di Lepanto fu la
prima grande vittoria di un'armata o flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano. La
sua importanza fu perlopiù psicologica, dato che i turchi erano stati per
decenni in piena espansione territoriale e avevano precedentemente vinto tutte
le principali battaglie contro i cristiani d'oriente. La vittoria dell'alleanza
cristiana non segnò comunque una vera e propria svolta nel processo di
contenimento dell'espansionismo turco. Gli ottomani infatti riuscirono già nel
periodo successivo a incrementare i propri domini, strappando, fra l'altro,
alcune isole, come Creta, ai veneziani. La parabola discendente vissuta
dall'impero ottomano nel corso del Seicento, riflette semmai una fase di
declino che coinvolse all'epoca tutti i Paesi affacciati nel bacino del Mediterraneo in
seguito allo spostamento verso le rotte oceaniche dei grandi traffici
internazionali.
In realtà più di un secolo dopo Lepanto i turchi erano ancora sotto
le mura di Vienna (1683), mentre Venezia dovette combattere altre lunghe guerre
con l'Impero ottomano, perdendo infine il controllo su tutte le isole e i porti
che possedeva in Egeo, eccettuate le isole Ionie. Inoltre la flotta ottomana
riuscì a sconfiggere quella veneziana presso capo Matapan al principio del
Settecento; segno che l'impero, pur in relativa decadenza, continuava a essere
una delle principali potenze europee. La scarsa coesione tra i vincitori impedì
alle forze alleate di sfruttare appieno la vittoria per ottenere una supremazia
duratura sugli Ottomani. Non solo: l'esercito cristiano non riconquistò neppure
l'isola di Cipro,
che era caduta da appena due mesi in possesso ottomano. Questo a causa del
volere di Filippo II,
il quale non voleva che i Veneziani acquisissero troppi vantaggi dalla
vittoria, visto che essi erano i più strenui rivali del progetto politico
spagnolo di dominio della penisola italiana
Nel 1573 la Serenissima fu
quindi costretta a firmare un trattato di pace a condizioni poco favorevoli.
Il Gran Visir Sokollu,
in quell'occasione, disse ai Veneziani che avrebbero potuto fidarsi più degli
ottomani che degli altri Stati europei, se solo avessero ceduto al volere del
Sultano. Dal canto suo, l'Impero Ottomano, nella persona del sultano, esprimeva
all'ambasciatore veneziano a Costantinopoli (presumibilmente un anno dopo
Lepanto), le sensazioni della Porta sulla sconfitta: Gli infedeli hanno
bruciacchiato la mia barba; crescerà nuovamente
Poco dopo Lepanto, la Porta
cominciò effettivamente un'opera di ricostruzione della flotta che si concluse
l'anno successivo. A seguito di questo riarmo la marina turca riacquistò la
superiorità numerica nei confronti delle potenze cristiane, ma non riuscì a
conquistare una sostanziale supremazia nel Mediterraneo, soprattutto nella sua
metà occidentale. Le nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in
fretta, tanto che l'ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben armate
e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita con legname marcio e
cannoni mal fusi.
La battaglia di Lepanto ebbe
anche importanti conseguenze all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le
varie Reggenze barbaresche governavano il Maghreb in nome del Sultano ottomano e
sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla sua potente
flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la Spagna. Dopo questa
battaglia fu chiaro che la flotta turca non era invincibile, mentre la Spagna,
pur vittoriosa, era troppo impegnata a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli,
e quindi le Reggenze barbaresche "rialzarono la testa", guadagnando
spazi d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche contro gli interessi del
Sulta.
I Protagonisti
Fonte Wikipedia
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