LA TREMENDA VICENDA
DELL'OSTE DI BIAE E
DELL'OSTE DI BIAE E
DELLA SUA LOCANDA A VENEZIA
di Alberto Tosi Fei
Si dovrebbe alla figura
leggendaria di Biagio Cargnio, lungo il Canal Grande, la denominazione di Riva
de Biasio. Secondo una antichissima storia veneziana Biasio, così come era
conosciuto da tutti, era un oste che al principio del Cinquecento aveva lì la sua
locanda. E il nome della riva sarebbe rimasto malgrado i tentativi della
Serenissima di cancellarne la memoria. Non esiste veneziano che, bambino, non
si sia sentito raccontare la vicenda dell'oste Biasio. Erano oramai alcuni anni
che la taverna di Biasio era celebre per il suo sguazeto, l’intigolo di carne,
insuperabile nel gusto. Quale splendido segreto, quello dell’oste! In tutto
quel tempo nessuno era riuscito a fargli dire quali ingredienti mescolasse
nella pentola; non dovevano essere poi tanto costosi, visto che Biasio vendeva
le sue scodelle di sugoso spezzatino veramente a buon prezzo. Sembrava non
pagasse nemmeno la carne! Fosse solo lo sguazeto, poi! La sua fama di
luganegher si era sparsa fino in terraferma, e non c’era barca proveniente da Mestre
che non fermasse all’osteria per far scorta delle fantastiche salsicce del
Cargnio. Un giorno uno squerarolo che stava pranzando nell’osteria, nella foga
di finire quel ben di Dio portò la scodella alla bocca per rovesciare fino
all’ultima goccia di intigolo nello stomaco; fu in quello che qualcosa di duro,
forse un pezzettino d’osso, gli rimase tra lingua e palato. L’uomo lo sputò sul
fondo della scodella, ma al momento di appoggiarla sul tavolo l’occhio cadde su
quello strano ossicino. Guardò meglio, e trattenne a stento un urlo. Sul fondo
della scodella – non c’era verso di sbagliarsi – stava un piccolo pezzo di dito
di bambino.
Si alzò, e si accorse di essere completamente sudato. Vincendo una
naturale ripugnanza, trovò la forza di raccogliere il ditino e di avvolgerlo,
di nascosto, nel fazzoletto; poi pagò e uscì. Un minuto dopo la bottega del
salsicciaio era piena di gendarmi. Nessuno di loro dimenticò mai, da quel
momento, lo spettacolo che si presentò ai loro occhi nell’entrare nel retrobottega:
ovunque erano sparse piccole membra di bambini. Viscere, arti, minuscoli organi
coi quali Biasio preparava le proprie saporite pietanze. Al Cargnio non rimase
che confessare le atrocità commesse. La Quarantia Criminale non attese oltre:
Biasio fu trascinato da un cavallo dal carcere alla sua bottega, e qui gli
furono mozzate le mani; con queste appese al collo, l’oste fu prima torturato
con delle tenaglie e poi portato in Piazzetta San Marco, dove fu decapitato tra
le due colonne. Il suo corpo, tagliato in quarti così come aveva fatto coi
bambini, fu esposto su delle forche in quattro diversi luoghi della città.
Anche l’osteria e la casa dell’uomo furono rase al suolo. Ma da allora in poi,
per i veneziani, quella rimase la riva “de Biasio”, malgrado in loro questo
nome evochi il terrore di tante piccole vittime sconosciute, ed il loro muto
dolore. E sebbene non vi sia nessuna prova storica dell’esistenza dell’oste e
della sua bottega, la vicenda è entrata prepotentemente nell’immaginario
veneziano, al punto che su questo luogo esiste anche una canzoncina
ottocentesca, le cui parole – messe in bocca a una madre – fanno pressappoco
così: “Su la riva de Biasio l’altra sera / So andada col putelo a ciapar aria,
/ ma se m’a stretto el cuor a una maniera / che la mia testa ancora se zavària:
/ me pareva che Biasio col cortelo / tagiasse a fete el caro mio putelo!”
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