venerdì 28 luglio 2023

 

    E' l’UOMO CHE CONFERISCE DIGNITA’ALLA NATURA.

 

Le scene di esultanza della sinistra e dei Verdi per aver salvato il “Nature restoration law” un provvedimento estremista e ideologico solo per una manciata di voti, è emblematica della situazione in cui versa la ormai ex maggioranza del Parlamento Europeo.

A farne le spese, ancora una volta, sono i cittadini europei. E a dispetto delle belle parole, il provvedimento per cui le sinistre festeggiano è uno schiaffo ad agricoltori e pescatori; avrà conseguenze economiche disastrose e andrà a colpire duramente la loro attività mettendo in pericolo le catene di approvvigionamento europeo, aumentando i prezzi dei prodotti alimentari per i consumatori e ostacolerà il lancio delle rinnovabili.

Noi siamo contrari a un radicale ambientalismo ideologico e di maniera, e che proprio nel “nature restoration law” ha forse una delle sue massime espressioni. Basti pensare che si dovrebbe bloccare il drenaggio delle paludi con una riumidificazione delle zone paludose. Fermare le idrovore significherebbe far invadere i campi di acqua non solo provocando la perdita di coltivazioni ma anche il ritorno di malattie come la malaria.

Al tempo stesso si parla della necessità di ripristinare 25.000 km di fiumi a flusso libero rimuovendo buona parte delle barriere artificiali dai fiumi sia longitudinali (le dighe) sia laterali che rappresentano il consolidamento degli argini secondo la visione che i corsi d’acqua devono essere lasciati liberi.

Già questo potrebbe bastare per far capire come dietro a questa legge non ci sia nessun progetto ambientalista, ma pura ideologia. Non si può definire in altro modo la proposta di far tornare allo strato brado parte della superficie agricola, senza né potervi costruire, né coltivare per favorire la biodiversità, oppure come la proposta di interruzione della manutenzione dei boschi.

La verità è che dietro a queste leggi c’è una logica folle, per cui l’uomo deve fare un passo indietro rispetto alla natura secondo la visione che una foresta o un bosco sopravvivono meglio se l’uomo ne tralascia ogni manutenzione. Come si può ben capire si tratta di decisioni che davvero poco o nulla hanno a che fare con il rispetto dell’ambiente e la svolta green dell’Europa, che deve essere ponderata, razionale e graduale.

Inoltre quello che si contesta al Nature restoration law non è solo nella sostanza del provvedimento ma anche nella forma, considerando che si è deciso di non adottare una direttiva che lascerebbe agli Stati un minimo di potere decisionale, ma di far adottare un regolamento che è molto più stringente verso gli Stati nazionali.

Una ideologia green di maniera, che sta evidentemente diventando eccessiva anche tra i cittadini di mezza Europa. Basta guardare cosa sta succedendo in Olanda, dove il primo partito nazionale, secondo tutti i sondaggi, è quello degli agricoltori, che proprio sulla lotta alle eurofollie green come questa, hanno fondato le basi del loro programma politico.

Quello che la sinistra ideologica non ha capito o fa finta di non capire, è che per noi ambientalismo vuol dire che uomo e natura non devono essere in contrasto tra loro.

                                                                   
                                                                       Stefano Franceschetto

lunedì 21 febbraio 2022

 Dicono che i numeri che usiamo in tutto il mondo provengano dal medioriente. Ma a VENEZIA ne abbiamo aggiunti degli altri, speciali. 


Il ''do tre'' una crasi numerica utilissima per l'acquisto del pane.

 ( Es. Dame do tre mantovanine).


Il ''Trecuatro'' numero massimo di spritz prima di barcollare, e si smette di tenerne il conto.

 ( Es. Me so ciavà trecuatro sprisseti, so ndà in asèo)


Il ''Seteoto'' il numero perfetto per ordinare crostacei al Mercato di Rialto. 

 ( Es. Ti me da seteoto gambaroni?)


I ''do ponti e na cae'' per misurare latitudini, longitudini e ogni tipo di distanza. 

 ( Es. Vara che no xe lontan, do ponti e na cae, ti xe za rivà)


La ''diesena'' non una semplice decina, il numero varia a discrezione del venditore, la diesena è un punto di domanda tra il nove e l'undici 

 (Es. Go magnà castraure, sa

rà stae na diesena.)


La ''sciantina'' o il ''fià'' numero prossimo allo zero assoluto, per richiedere un assaggino e farsi un'idea. 

 ( Es. Me basta na sciantina, de manco, eco: un fià massa'')


Il ''Massa'' è quel numero che si usa per descrivere un eccesso considerevole.

 ( Es. Go bevuo massa - oppure - massa casin, n'demo casa)


La ''sbrancada'' è la X in matematica dove per X si intende una quantità N contenuta in Y mani del venditore. ( Es. Dame na sbrancada de quei, uno par sorte)


''N par sorte'' per descrivere due quantità uguali per due qualità differenti. 

 ( Es. Damene uno par sorte, damene do par sorte, damene tre etc etc) 


La ''sboconada'' è il numero che definisce il morso, di chi è già satollo, oppure vuole assaggiare il cibo in mano agli altri.

 ( Es. Ti magni pandoro? Na sboconada - oppure - Ti vol na sboconada, vara che xe bon )

martedì 28 dicembre 2021

 Caterina Cornaro regina di Cipro

Caterina Cornaro nacque a Venezia il 25 novembre 1454, donna veneziana colta, aperta al mondo, contribuì al predominio della Serenissima nel Mediterraneo e in Europa.
Figlia del veneziano Marco Corner (italianizzato in Cornaro) e di Fiorenza Crispo, apparteneva ad una delle famiglie più ricche ed influenti della Repubblica di Venezia. Venne educata in un monastero a Padova fino all'età di 14 anni. Fu scelta, tra le donne più in vista della Serenissima come sposa per il re di Cipro e di Armenia, Giacomo II di Lusignano detto "il Bastardo" che fu, dal 1460 al 1473, re di Cipro.
Nel 1468 Giacomo II di Cipro sposò per procura Caterina Cornaro che, solo nel 1472, venne condotta a Famagosta, sull'isola di Cipro, dove furono celebrate nozze sontuose. Un anno dopo il re morì a causa di una strana malattia, dovuta ad uno strapazzo di caccia, poco prima della nascita del suo erede Giacomo III, che a sua volta morì l'anno successivo di febbri malariche. Questo fece sì che l'intera eredità dei Lusignano passasse nelle mani della Regina Caterina. Subito dopo la morte di Giacomo II, a Famagosta scoppiò una sommossa fomentata da più parti, per sostituire a Caterina l'erede "legittima" Carlotta, figlia di Giovanni II di Lusignano, sorellastra di Giacomo II e moglie di Ludovico di Savoia. A questo punto Venezia intervenne, dirigendo la politica di Caterina, che governo' su Cipro assistita da un Consiglio di Reggenza, dallo zio Andrea Corner e da due cugini. Cipro cadde sotto l'influenza della Serenissima. Decisi nel volersi liberare dal dominio veneziano, nella notte del 13 novembre 1473, alcuni nobili catalani appoggiati dal vescovo di Nicosia, penetrarono nel Palazzo Reale e nella stanza stessa della Regina, assassinando lo zio Andrea, il cugino Marco Bembo, il medico ed un domestico. Venezia rispose inviando dieci galee agli ordini del Provveditore Vettor Soranzo. Le truppe da sbarco catturarono i nobili dissidenti al soldo del re di Napoli e del Duca di Savoia. Alla morte del figlio Giacomo III, nel 1474, il suo posto fu preso dalla stessa Caterina, che regno' dal 1474 al 1489. Le fu attribuito dal Senato Veneto l'appellativo di "Figlia adottiva della Repubblica" onore mai tributato a nessuna donna prima di lei. Nell'ottobre del 1488 fu scoperta un'altra congiura, ordita ancora dai nobili catalani. Venezia represse di nuovo la ribellione e decise di richiamare Caterina, costringendolo ad abdicare a favore della Repubblica. A seguito del suo rifiuto, fu minacciata che in caso di disobbedienza sarebbe stata spogliata di tutti i privilegi e sarebbe stata trattata come ribelle. Il 26 febbraio 1489 avvenne l'atto ufficiale dell' abdicazione di Caterina in favore della Serenissima. Il 18 marzo, vestita di nero, la regina lasciò per sempre l'isola. Venezia accolse la sua "figlia" in maniera trionfale. Sedette sul Bucintoro accanto al doge Agostino Barbarigo e fu nominata domina Aceli (signora di Asolo), conservando tuttavia anche negli atti ufficiali il titolo ed il rango di regina. Sul territorio di Asolo, Caterina aveva gli stessi poteri del doge. Unici limiti: non poteva far subire ai sudditi nessun onere o angheria e non poteva ospitare chi non fosse gradito al doge. Da allora ogni anno a Venezia si ricorda con la Regata Storica l'accoglienza riservata dalla Serenissima alla Regina di Cipro. Caterina richiamo' alla sua corte artisti e letterati, tra cui Giorgione, Lorenzo Lotto, Pietro Bembo, (che qui ambiento' gli Asolani). Nel 1509, all'avanzare delle truppe imperiali di Massimiliano I d'Asburgo, si rifugio' a Venezia. Ritornata nel suo castello e tra gli Asolani che tanto l'amavano, fuggì di nuovo quando le truppe tedesche si affacciarono alle porte di Altivole. Caterina Cornaro morì il 10 luglio 1510 e venne tumulata nella Chiesa dei Santi Apostoli. Tale fu la folla che volle partecipare al rito funebre, che i Provveditori fecero costruire un ponte di barche da Rialto a Santa Sofia per permettere un migliore deflusso. La salma rimase solo pochi anni nella Chiesa dei Santi Apostoli perché, a causa della costruzione della nuova chiesa, nel 1575 venne trasferita nella Chiesa di San Salvador, dove tuttora riposa.
Antonio Marciano


lunedì 27 settembre 2021






 Discorso introduttivo del prof. GIORGIO ATHANASIADIS - NOVAS agli atti del convegno internazionale "Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto" (Fondazione G. Cini, Venezia, 8-10 ottobre 1971, in occasione dei 400 anni dalla battaglia).

🔹

Lepanto è stata l'ultima - la tredicesima - delle Crociate. La sola che si sia svolta interamente in mare, la sola senza fini di conquista, la sola che abbia conservato intatta la santità della difesa, l'ultima che come insegna non ebbe colori nazionali o emblemi reali, ma il vessillo di Cristo in croce, l'ultima che si sia servita solamente della forza motrice dei remi.

L'ammiraglio francese Jurien de la Gravière scrive: "La sorte del mondo per tre volte è dipesa dall'esito di un enorme scontro navale: Salamina, Azio, Lepanto". Queste battaglie navali hanno in comune un elemento, e cioè che sono state combattute in acque greche.

Vengo da Lepanto, dove sono nato. Fin dai miei primi anni di scuola mi ha impressionato la gigantesca battaglia navale del 1571. Sentivo, con una certa dose di fantasia, nel mormorio di quel mare quasi il piacevole racconto di una mitica fiaba, quasi il monito rinnovantesi continuamente di una straordinaria prodezza, capace di suscitare sempre brividi e provocare ammirazione. Da quello stesso mormorio di Lepanto e delle Echinadi vi porto, signori, un ampio saluto di onore e di amabilità. Il simbolico saldo di un grande debito a nome di quei luoghi storici verso di voi, che tanto vi prodigate, nelle ricerche e negli studi, per conservare ed eternare il ricordo del grande evento che li ha illustrati...

Battaglia navale di Lepanto. È stata consacrata da secoli con questo titolo, mentre nella realtà ha avuto luogo, come si sa, a circa 36,6 miglia ad occidente di Lepanto, all'ingresso del golfo di Patrasso, vicino al gruppo delle isole chiamate Echinadi in greco, Curzolari in veneziano.

La denominazione di Lepanto non è dovuta ad errore della storia né tanto meno alla sua benevolenza per Lepanto. In quell'epoca tutta la regione occidentale della Grecia continentale, e anche tutto il golfo di Corinto, veniva denominata Lepanto. Naupatto, antichissima città fortificata, nota già sin dalla discesa dei Dori, capitale dell'antica Etolia, sede, in seguito, del governatore romano, bizantino, veneziano e turco. A parte questo però, quando all'alba del 3 ottobre del 1571 la flotta cristiana, abbandonata Igumenizza, navigava verso Cefalonia e si trovava all'altezza di Paxò, una fregata inviata dal governatore di Zacinto, portava al Comandante della flotta, Don Juan, l'informazione fornita dal cavaliere inviato in osservazione Gilles d'Andrade (ammiraglio, l'anno seguente, della flotta di Napoli) che la flotta turca, proveniente dal l'Adriatico e dallo Ionio, aveva approdato per riposo, riparazioni, rifornimenti a Lepanto. Da quel momento, automaticamente, Lepanto divenne il bersaglio della spedizione cristiana. Possiamo fondatamente supporre che la notizia sia stata comunicata all'occidente prima della battaglia navale; perciò era da Lepanto che si aspettava con ansia la notizia del risultato. Ma anche dopo la vittoria, la cui grandezza superava ogni aspettativa e oscurava ogni altro particolare, era naturale che Giustiniani a Venezia (dopo 10 giorni), il conte de Proego, Pompeo Colonna e il cavaliere de Romegas al Papa, don Lopez de Figueroa a Filippo II di Spagna (dopo un mese) annunziassero la grande notizia come "Vittoria di Lepanto". Così, la chiesa nelle sue dossologie, il popolo nelle sue acclamazioni, i poeti nei loro inni, i pittori e gli scultori nelle loro opere, i soldati nei loro racconti, gli storici nelle loro opere, sin dal primo momento consacrarono l'epopea del 1571 con il nome di Lepanto.

Sarebbe un'ingiustizia dimenticare le Echinadi. Il queste isole è menzionato anche dagli antichi scrittori greci (Erodoto, Euripide, Strabone). La mitologia ci dice che erano dapprima ninfe spensierate del mare. Commisero un'empietà e il potente dio del fiume Acheloo, il quale era adirato perché Ercole gli aveva rubato la fidanzata, la reginetta dell'Etolia Deianira, le trasformò in isole.
E per di più in isole rocciose, deserte, improduttive... Da allora Acheloo, "fiume che regna su tutti", scrive Omero, univa alla terraferma molte isole. Oggi se ne trovano nel mare circa 20.
Devono evidentemente il loro nome greco alle spiagge, come spinose, e piene di ricci. Il nome veneziano Curzolari lo avrebbero aggiunto certi pirati della Dalmazia, dove esiste un'isola di nome Curzola.

Avevano ragione coloro che dissero che, essendo il Papa Pio V riuscito a unire la Spagna con Venezia, era come se avesse riunito l'acqua con il fuoco.

Domandi pure il Daru «Chi crederebbe che una così splendida vittoria fosse destinata a rimanere senza risultati »? Osservi pure Hammer (Joseph von Hammer Purgstall, 1774-1856): «Non si può non pensare, senza un sentimento profondo di tristezza, alla nullità dei risultati di questa battaglia navale ». Scriva pure Rambaud (Alfred-Nicolas Rambaud, 1842-1905) che «i festeggiamenti e le statue sono stati gli unici risultati di quella grande vittoria».  Montaigne però (Michel Montaigne, 1533-1592) contemporaneo, aveva giudicato diversamente: «Questa battaglia navale segna l'inizio della caduta graduale e inevitabile dell'Impero Ottomano».
E l'insuperabile storico francese della battaglia navale, l'ammiraglio Jurien de la Gravière, è d'accordo con lui. Giudica così nella sua introduzione: « I turchi dopo questa grande catastrofe non si ripresero mai più. La battaglia navale di Lepanto tolse loro per sempre il dominio del mare » ... Scrive l'abate Brandôme che il mancato sfruttamento della vittoria fu una grande vergogna. Ma scrive anche il vescovo di Dax, allora ambasciatore di Francia a Costantinopoli: Fu forse un'azione di prudenza il contenersi dei vincitori in quel momento. Ed è strano come mai non abbiano deciso di occupare Lepanto che era vicina al campo di battaglia, sebbene ne fosse stato ucciso il governatore e la guarnigione fosse scomparsa durante la battaglia navale ».

Sono greco e di Lepanto. Ed ancora solo la Grecia, e particolarmente la regione vicina a Lepanto subì le tragiche conseguenze della battaglia navale in forma di violente rappresaglie contro i cristiani locali. Intanto vorrei vedere intatta e senza ombra l'aureola della vittoria e mi accontento della giusta frase di Braudel: "è stata la fine di un vero complesso d'inferiorità del mondo cristiano nei confronti dei turchi".

La musa popolare greca (che ha dato veri e propri capolavori di grande valore poetico tanto che Fauriel, Passov, Tommaseo, Pavolini e altri li considerano superiori a tutte le poesie popolari e il Goethe se ne è mostrato particolarmente entusiasta), non poteva non essere ispirata dal grande avvenimento. Un distico, che i navigatori greci cantarono sin dai primi momenti della formazione della flotta della Santa Lega diceva:

«Vorrei essere un faro d'oro nello stretto di Messina per far luce quando passerà il principe di Spagna».

È stata conservata però anche una poesia più lunga che cantavano i navigatori di Parga nell'Epiro:

La Battaglia Navale e lo Schiavo (Parga 1574)

"Vorrei essere un uccello, un dolce usignolo, vorrei essere una rondine
vorrei essere un fanale d'oro nel faro di Messina
per vedere, per vedere da lontano il re che viene con la nave
dove navigano con gioia e remano cantando.
Non vanno per entrare in porto, né per gettar l'ancora,
cercano Aly Pascià per combatterlo.

Quando si incontrarono le due grosse armate
il cannone tuona, il giorno si fa notte
prua con prua s'incontra, albero con albero
Piedi, mani e corpi riempiono le navi
Fù ucciso Aly Pascià, il degno prode
e il Re la sua galera tirava dalla poppa
Dentro aveva cento schiavi incatenati
e lo schiavo sospirò e si fermò la nave
e il Re si spaventò e chiamò il suo primo ufficiale
- "Colui che sospirò e si fermò la nave
se è tra i miei servi, aumenterò il suo stipendio
se è tra i miei schiavi, lo libererò".
- "Io sono colui che sospirò e la nave si fermò perché ho fatto un sogno brutto là dove dormivo
Ho visto che mia moglie la facevano sposare con un altro.
Fresco sposo di quattro giorni i turchi mi fecero schiavo
e dieci anni ho fatto nella terra di Barbaria..."

È interessante osservare in questo canto che il popolo greco, anche se in quell'epoca schiavo, con sentimenti limitati dalla necessità, si è mostrato superiore davanti al dramma del Primo Ammiraglio turco riconoscendo onorevolmente il suo valore e il suo eroismo, quasi piangendo per la sua sorte: « fu ucciso Aly Pascià, il degno prode ». (Muezizandé Alì)  In una rivista greca del secolo scorso («Pandora», vol. 14°, 1863-1864) appare il canto seguente:

"Un po' lontano da Cefalonia, di fronte a Santa Maura
là si sono incontrate le due grosse armate grosse e terribili del turco e del franco.
Petto a petto si battono e testa a testa.
Non ti temo, Aly Pascià, non ti considero neanche, ho navi di bronzo e alberi di ferro."

Questo canto dà, come avete sentito, in poche semplici parole, una descrizione impressionante della dura e violenta lotta nella sua fase più aspra e poi aggiunge, presi in prestito da altre canzoni popolari, molti versi che descrivono a forti tinte la tragedia dei rematori schiavi, a dimostrazione di quanto profonda mente soffrissero allora gli animi in quel tremendo martirio che era la schiavitù.

Penso infine che, anche nei confronti di quei martiri sconosciuti e molto tormentati, che nella battaglia navale di Lepanto raggiunsero il culmine del loro martirio, dei rematori delle due flotte, il ricordo storico non debba essere avaro. Incatenati, con bocca tappata, con la frusta dell'aguzzino spesso calata sulle loro spalle nude, tendevano le loro forze fino all'estremo, sacri ficando la loro vita priva di gioia senza l'onore del combattente armato, senza l'attesa di una gloria personale. Le grida più strazianti del dolore umano, la cui eco resta inestinguibile negli antri più oscuri della storia, sono quelle dei rematori della battaglia navale che bruciavano o affondavano con esse e urlavano disperatamente senza che potessero spezzare le loro catene e salvarsi...

Uno degli effetti particolari e più commoventi della battaglia navale fu la liberazione, secondo alcuni di 10.000, 
secondo altri di 15.000 prigionieri greci rematori.

lunedì 16 agosto 2021

 

La simbologia del Leone di San Marco deriva da un'antichissima tradizione delle Venezie , secondo la quale un angelo in forma di leone alato avrebbe rivolto al Santo, naufrago nelle lagune, la frase: «Pax tibi Marce, evangelista meus. Hic
requiescet corpus tuum
» (Pace a te, Marco, mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo) preannunciandogli che in quelle terre avrebbe trovato un giorno riposo e venerazione il suo corpo. Il libro, spesso erroneamente associato al Vangelo, ripropone proprio le parole di benvenuto del leone e, nella maggior parte delle rappresentazioni veneziane, si presenta aperto recando solitamente la scritta latina «PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEVS».

Bisogna ricordare anche che lo stesso san Marco, rappresentato in forma di leone, è tipico dell'iconografia cristiana derivante dalle visioni profetiche contenute nel versetto dell'Apocalisse di san Giovanni 4, 7. Il leone è infatti uno dei quattro esseri viventi descritti nel libro come posti attorno al trono dell'Onnipotente e intenti a cantarne le lodi, poi scelti come simboli dei quattro evangelisti. In precedenza questi "esseri" erano stati descritti dal profeta Ezechiele nel suo libro contenuto nella Bibbia ebraica. Il leone è associato a Marco in funzione delle parole con le quali comincia il suo Vangelo in riferimento a San Giovanni Battista:

«Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Come è scritto nel profeta Isaia: «ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri».»

(Vangelo secondo Marco 1,1-3)

Il Battista vestiva nell'immaginario cristiano una pelle di leone (nonostante il Vangelo secondo Marco riporti che vestisse peli di cammello) e la frase evangelica della voce che grida nel deserto richiamava l'idea di un ruggito nel deserto.

Il leone simboleggia anche la forza della parola dell'Evangelista, le ali l'elevazione spirituale, mentre l'aureola è il tradizionale simbolo cristiano della santità.

Tuttavia il simbolo leonino esprimeva anche il significato araldico di maestà e potenza (tratto quest'ultimo sottolineato soprattutto dalla coda felina alzata), mentre il libro ben esprimeva i concetti di sapienza e di pace e l'aureola conferiva un'immagine di pietà religiosa. La spada, oltre al significato di forza, è invece anche simbolo di giustizia e difatti è ricorrente nelle rappresentazioni, antropomorfe e no, della Giustizia.

Erano dunque simbolicamente presenti tutti i caratteri con cui Venezia ama pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza, saggezza, giustizia, pace, forza militare e pietà religiosa.

Numerose le interpretazioni simboliche possibili riguardo alla combinazione tra spada e libro:

·       il solo libro aperto è ritenuto simbolo della sovranità dello Stato (numerose le raffigurazioni dei Dogi della Repubblica di Venezia inginocchiati davanti a tale rappresentazione);

·       il solo libro chiuso è invece ritenuto simbolo della sovranità delegata e quindi delle pubbliche magistrature;

·       il libro aperto (e la spada a terra non visibile) è ritenuto popolarmente simbolo della condizione di pace per la Serenissima, ma ciò non è suffragato da alcuna fonte storica;

·       il libro chiuso e la spada impugnata è invece popolarmente, ma erroneamente, ritenuto simbolo della condizione di guerra;

·       il libro aperto e la spada impugnata sarebbe infine simbolo della pubblica giustizia.

Tuttavia tali interpretazioni non sono universalmente accettate in quanto la Serenissima non codificò mai i propri simboli rappresentati in modo assai vario. Rare, ma presenti, sono anche raffigurazioni del leone privo sia del libro, sia della spada, sia talvolta dell'aureola (soprattutto nella rappresentazione statuaria).

Non rare le raffigurazioni in cui il leone poggia le zampe anteriori su una terra in cui spesso compare anche una città turrita e quelle posteriori sull'acqua: tale particolare rappresentazione intendeva indicare il saldo potere di Venezia sulla terra e sul mare.

domenica 28 ottobre 2018

LA BATTAGLIA DI LEPANTO











LA BATTAGLIA DI LEPANTO
 
La fotta della Lega Santa
Secondo la descrizione data dal Summonte l'armata della lega santa era divisa in 4 parti, Corno destro, Corno sinistro, la parte centrale o Battaglia e la riserva o Soccorso.
Il centro dello schieramento cristiano cattolico si componeva di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8 galee genovesi, 7 galee toscane sotto le insegne pontificie, 3 maltesi, 1 sabauda, per un totale di 62 galee e 2 galeazze. Lo comandava Don Juan de Austria (Don Giovanni d'Austria) Comandante generale dell'imponente flotta cristiana: ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto Carlos I de España (Imperatore Carlo V) e fratellastro del regnante Felipe II de España (Filippo II) aveva già dato ottima prova di sé nel 1568 contro i corsari barbareschi. Con lui a bordo Francesco Maria II della Rovere - figlio ed erede del duca Guidobaldo II Della Rovere - Capitano generale degli oltre 2.000 soldati volontari provenienti dal Ducato d'Urbino. Per ragioni di prestigio affiancavano la Real spagnola: la Capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la Capitana di Ettore Spinola, Capitano generale genovese, la Capitana di Andrea Provana di Leinì, Capitano generale piemontese, l'ammiraglia Santa Maria della Vittoria del priore di Messina Pietro Giustiniani, Capitano generale dei Cavalieri di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane sotto le insegne pontificie, e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano (da non confondere con l'omonimo doge veneziano).

Il corno destro 
era invece composto di 25 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2 sabaude e 2 toscane sotto le insegne pontificie, per un totale di 53 galee e 2 galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.
Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 30 galee di Alvaro de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 toscane sotto le insegne pontificie, 2 genovesi. L'avanguardia, guidata da Giovanni de Cardona si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4 veneziane.
In totale, la Lega schierò in battaglia una flotta di 6 galeazze e circa 204 galere. A bordo erano imbarcati non meno di 36.000 combattenti, tra soldati (fanteria al soldo del re di Spagna, tra cui 400 archibugieri del Tercio de Cerdeña, pontificia e veneziana), venturieri e marinai, verosimilmente tutti armati di archibugio. A questi si aggiungevano circa 30.000 galeotti sferrati, ovvero tutti i rematori, schiavi esclusi, cui venivano distribuite spade e corazze per prendere parte alla mischia sui ponti delle galere. Quanto all'artiglieria, la flotta cristiana schierava, approssimativamente, 350 pezzi di calibro medio-grande (da 14 a 120 libbre) e 2.750 di piccolo calibro (da 12 libbre in giù).

La flotta ottomana
La flotta turca schierata a Lepanto, reduce dalla campagna navale che l'aveva impegnata durante l'estate, era verosimilmente forte di 170-180 galere e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e brigantini corsari[26]. La forza combattente, comprensiva di giannizzeri (in numero tra 2.500 e 4.500), spahi e marinai, ammontava a circa 20-25.000 uomini[24]. Di questi, sicuramente armata d'archibugio era la fanteria scelta dei giannizzeri, mentre la gran parte degli altri combattenti era armata di arco e frecce[24]. La flotta ottomana, inoltre, era munita di minore artiglieria rispetto a quella cristiana: circa 180 pezzi di grosso e medio calibro e meno della metà degli oltre 2.700 pezzi di piccolo calibro imbarcati dal nemico.
I turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco[28], all'ala destra, mentre il comandante supremo Müezzinzade Alì Pascià (detto il Sultano) al centro conduceva la flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah. Infine l'ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì, un apostata di origini calabresi convertito all'Islam (detto Ucciallì oppure Occhialì , presiedeva all'ala sinistra; le navi schierate nelle retrovie erano comandate da Murad Dragut (figlio dell'omonimo Dragut Viceré di Algeri e Signore di Tripoli che era stato uno dei più tristemente noti pirati barbareschi).
 
L'esca
Don Giovanni decise di lasciare isolate in avanti, come esca, le 6 potentissime galeazze veneziane, che per prime aprono il fuoco. Essendo le galeazze difficilmente abbordabili, sia per la loro notevole altezza e sia per i cannoni disposti a prora, lungo i fianchi e a poppa. Il comandante aveva inoltre deciso di togliervi un gran numero di spadaccini e sostituirli con archibugieri, i quali crearono subito gravi danni alla flotta turca. La potenza di fuoco della flotta cristiana era infatti più forte rispetto a quella nemica, grazie agli armamenti veneziani che negli anni precedenti erano divenuti sempre più poderosi, mentre i turchi non erano riusciti a tenere il passo con le innovazioni, ritrovandosi quindi con un'artiglieria meno numerosa e potente. La potenza di fuoco delle galeazze si dimostrò devastante, con l'affondamento/danneggiamento di circa 70 navi e distruzione dello schieramento iniziale della flotta ottomana.
Alì non tentò l'abbordaggio delle galeazze, definite dei veri e propri castelli in mare da non essere da umana forza vinti,ma decise infine di superarle e di scagliare tutta la sua flotta in uno scontro frontale, mirando unicamente all'abbordaggio della nave di Don Giovanni per provare a ucciderlo demoralizzando così la flotta della Lega Cristiana. Ed essendo in inferiorità numerica (167-235) tentò di circondarla, utilizzando la tattica navale classica.

Lo scontro
Con il vento a favore e producendo un rumore assordante di timpani, tamburi e flauti i turchi cominciarono l'assalto alle navi della Lega cristiana che erano invece nel più assoluto silenzio. Improvvisamente intorno alle ore 12 il vento cambiò direzione: le vele dei turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.
Quando i legni giunsero a tiro di cannone delle galeazze i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Don Giovanni innalzò lo stendardo di Lepanto con l'immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da papa Pio V per la crociata e i forzati liberati dalle catene e nell'animazione del momento, Giovanni d'Austria ordinando di dare fiato alle trombe, sulla piazza d'armi della sua galera con due cavalieri, si mise a ballare a vista di tutta l'armata una concitata danza, chiamata dagli Spagnoli la gagliarda.
La prima azione della battaglia da parte della Lega fu l'ordine di Doria di prendere il largo allontanandosi dal resto della flotta, al vedere ciò Alì Pascià ritenendo che fosse nell'intenzione del Doria abbandonare il campo di battaglia gli fece mandare un tiro di cannone a cui però il Doria non rispose e Giovanni d'Austria vedendo ciò fece rispondere dalla sua galera con un tiro di cannone in segno di accettazione della sfida.
Don Giovanni d'Austria perciò puntò fulmineamente diritto contro la Sultana di Alì che riuscì a evitare il fuoco di fila delle bordate delle galeazze, poste circa un miglio più avanti rispetto alla flotta della coalizione e i cui proiettili erano stati studiati in modo che uscendo dai fusti dei cannoni si aprissero in due emisfere unite da catene che andavano a spezzare le alberature delle galee ottomane , oltrepassandole per attaccare le galee nemiche. Il reggimento di Sardegna diede per primo l'arrembaggio alla nave turca, che divenne il campo di battaglia: i musulmani a poppa e i cristiani a prua.
Per i cristiani gli scontri coinvolsero all'inizio il veneziano Barbarigo, alla guida dell'ala sinistra e posizionato sotto costa. Egli dovette parare il colpo del comandante Scirocco, impedire che il nemico potesse insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ebbe solo un parziale successo e lo scontro si accese subito violento. La stessa galea di Barbarigo diventò teatro di un'epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte all'infuriare della quale il Barbarigo si alzò la celata dell'elmo per poter impartire gli ordini con più libertà quando fu colpito a un occhio da una freccia nemica[33]. Le retrovie dovettero correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la disfatta: ma grazie all'arrivo della riserva guidata dal Marchese di Santa Cruz le sorti si riequilibrarono e così Scirocco viene catturato, ucciso e immediatamente decapitato.
Al centro degli schieramenti Alì Pascià cercò e trovò la galea di Don Giovanni d'Austria, la cui cattura avrebbe potuto risolvere lo scontro. Contemporaneamente altre galere impegnarono Venier e Marcantonio Colonna. Molti furono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galera toscana Fiorenza dell'Ordine di Santo Stefano fu quasi interamente ucciso, eccetto il suo comandante Tommaso de' Medici con quindici uomini. Al terzo assalto i sardi arrivarono a poppa. Don Giovanni fu ferito a una gamba. Più volte le navi avanzarono e si ritirarono, Venier e Colonna dovettero disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Giovanni che sembrava avere la peggio assieme all'onnipresente Marchese di Santa Cruz. Alla sinistra turca, al largo, la situazione era meno cruenta ma un po' più complicata. Giovanni Andrea Doria disponeva di poco più di 50 galee, quasi quante quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul corno opposto ma davanti a sé trovò 90 galere, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani e oltretutto in un'area molto più ampia di mare aperto; per questo pensò a una soluzione diversa dallo scontro diretto. Giovanni Andrea Doria infatti, a un certo momento della battaglia, cominciò una manovra di allargamento verso il mare aperto del corno al suo comando, in reazione a un'analoga manovra del corno sinistro della flotta ottomana, che minacciava di aggiramento il resto della flotta cristiana.

Gli eventi del corno destro
Il ruolo cruciale di Gianandrea Doria è stato spesso oggetto di disputa gli avversari dei genovesi insinuarono che egli si fosse defilato o per preservare il proprio naviglio o perché obbediva ancora agli ordini di Filippo II o, si disse, perché si era messo d'accordo con Uluč Alì per ridurre al minimo i danni alle loro imbarcazioni (anche il comandante barbaresco come il genovese affittava le galere al suo Signore). Altri lo difendono definendo la sua iniziativa improntata a una grande lucidità tattica; altri ancora non prendono posizione, descrivendo semplicemente gli eventi. La manovra del Doria aprì un varco fra il centro e il suo corno del quale approfittò rapidamente il suo diretto avversario. Uluč Alì si insinuò fra le due squadre cristiane, attaccò un gruppo di galee dalmate tra cui la "San Trifone" di Cattaro comandata dal sopracomito Girolamo Bisanti lì rimaste a sostenere l'impeto nemico in maniera da non consentirne l'aggiramento.
Con il vento in poppa, assalì da dietro la Capitana (ossia l'ammiraglia) dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell'Ordine. La Capitana, circondata da sette galere nemiche fu catturata. Uluč Alì si impossessò del vessillo dei Cavalieri di Malta, fece prigioniero Giustiniani e prese a rimorchio la sua galea. Oltre la Capitana di Malta, anche la Fiorenza e la San Giovanni (galere toscane della flotta papale), e la Piemontesa (della squadra sabauda), circondate da un nugolo di galere turchesche, caddero nelle mani di Uluč Alì. L'analisi del comportamento del Doria è ancor oggi oggetto di disputa. Secondo Nicolò Capponi, l'accusa che Doria fosse riluttante a rischiare le sue galere è smentita dal fatto che più della metà erano impegnate nelle altre divisioni. Quanto alla tesi di un accordo clandestino tra il genovese e Uluč Alì essa non tiene conto del fatto che i due comandanti non potevano in alcun modo prevedere che si sarebbe trovati l'uno di fronte all'altro anzi, stando ai resoconti delle spie ottomane, la presenza di Doria non era nemmeno prevista
Viste le circostanze, Doria non avrebbe potuto reagire diversamente di fronte al tentativo di accerchiamento di Uluč Alì. Vero è che la sua manovra aggravò lo svantaggio numerico del corno destro, dato che alcune galere, per lo più veneziane, si staccarono dal troncone principale, e che Uluč Alì, invertendo improvvisamente la rotta, puntò dritto verso le ritardatarie. Pare che Doria non abbia notato subito questa mossa, forse perché l'avversario si muoveva nascosto da una coltre di fumo, ma quando capì quanto stava per accadere reagì rapidamente: virò in direzione est e si diresse vero il nemico.Capponi prosegue descrivendo lo sviluppo dell'azione, e sottolineando come la contromanovra del Doria, unita all'intervento della riserva del centro cristiano, abbia provocato l'accerchiamento delle galee di Uluč Alì, il quale riuscì a fuggire abbandonando tutte le unità che aveva catturato, tranne una.

Alessandro Barbero, al contrario, sottolinea che “Uluč Alì dimostrò di saperla molto più lunga” del Doria e che la manovra di allargamento del corno destro già all'indomani della battaglia fece circolare all'interno della flotta il sospetto che l'ammiraglio genovese volesse sottrarsi al combattimento e che tale sospetto non si è più dissipato fino a oggi. Particolarmente duro fu il giudizio della Santa Sede: Pio V minacciò di morte Doria se si fosse presentato a Roma, dicendo che per il momento faceva meglio a starsene lontano. Secondo il Papa, Gianandrea era “corsaro et non soldato” e il re di Spagna avrebbe fatto meglio a sbarazzarsi di lui.Il pontefice espresse direttamente a Filippo II le sue riserve su Gianandrea suggerendogli di recedere dall'asiento (il contratto di locazione delle galee del Doria). La galera del Doria e le altre unità del suo corno avevano subìto meno perdite di tutto lo schieramento cristiano, cosa che colpì negativamente quasi tutti i comandanti nel raduno generale che seguì la battaglia, alimentando le voci e i sospetti.
Tuttavia, sempre secondo quanto scrive Barbero, “almeno qualche testimone attribuisce a Gianandrea motivazioni più nobili”. In una lettera scritta da Messina l'8 novembre 1571, don Luis Requesens informò Filippo II di aver parlato col Doria poco prima dell'inizio della battaglia. Questi gli anticipò di volersi allargare verso il mare aperto per lasciare più spazio di schieramento e di manovra al resto della flotta, e si lamentò del fatto che non tutte le galere del suo corno tenevano il passo. A chi faceva “maliziosamente notare che la galera del Doria non aveva subito troppi danni durante la battaglia” don Luis replicava “che non si può morire a dispetto di Dio”, ovvero che non si devono necessariamente sostenere perdite consistenti in una vittoria, anzi. Barbero cita anche il giudizio di Bartolomeo Sereno secondo il quale Doria aveva fatto bene ad allargarsi per evitare di essere aggirato dalla numericamente superiore squadra di Uluč Alì.
Quest'ultimo tuttavia aveva manovrato ottimamente, mettendo in difficoltà il genovese e inducendolo a portarsi troppo al largo, lasciando indietro diverse galere (alcune della quali, secondo Sereno, rimasero indietro apposta disubbidendo agli ordini dell'ammiraglio e invertirono al rotta di propria iniziativa dirigendosi verso il centro) e sfilacciando il suo schieramento. Barbero sottolinea infine che quando Uluč Alì si insinuò nel varco aperto fra il corno destro e il centro, il Doria invertì la rotta “col proposito ormai superato dagli eventi di portarsi alle spalle del nemico” ma arrivò tardi per salvare le galere ritardatarie. Alcuni storici navalisti stranieri si limitano a descrivere la manovra di Doria come un movimento di allargamento effettuato in risposta al tentativo di accerchiamento di Uluč Alì, senza proporre tesi particolari sul suo comportamento. Jan Glete, ad esempio, riprendendo l'analisi di J.F. Guilmartin, sottolinea come Alì Pascià intendesse aggirare su entrambi i fianchi la flotta della Lega, e come i movimenti delle squadra del Doria e di Uluč Alì verso il mare aperto fossero la conseguenza di questo tentativo. I turchi di Uluč Alì alla fine riuscirono a incunearsi fra il centro e la destra cristiana, ma furono “prima bloccati dalla squadra cristiana di riserva, e poi attaccati da quella rimasta al largo”, cioè dal corno del Doria.
 

L' epilogo

Al centro, il comandante in capo ottomano Müezzinzade Alì Pascià, già ferito, cadde combattendo. La nave ammiraglia ottomana fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona e, contro il volere di Don Giovanni, il cadavere dell'ammiraglio ottomano Alì Pascià fu decapitato e la sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola. La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore e il giorno volgeva ormai al tramonto quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Don Giovanni d'Austria riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria: i turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117 vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate, inoltre 30.000 uomini persi tra morti e feriti, altri 8.000 prigionieri. Inoltre vennero liberati 15.000 cristiani dalla schiavitù ai banchi dei remi. I cristiani liberati dai remi sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla Santa Casa di Loreto dove offrirono le loro catene alla Madonna. Con queste catene furono costruite le cancellate davanti agli altari delle cappelle. Gli Ottomani avevano salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e se tatticamente si trattò di una decisiva vittoria cristiana, la dimensione della vittoria strategica è dibattuta: secondo alcuni la sconfitta segnò l'inizio del declino della potenza navale ottomana nel Mediterraneo.
Altri fanno notare che la flotta turca si riprese rapidamente, riuscendo già l'anno successivo a mettere in mare un grosso contingente di navi, grossomodo equivalente a quelle messe in campo dalla Lega. Queste flotte erano però meno armate e addestrate delle precedenti, e dopo Lepanto la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grandi battaglie, dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e al disturbo dei traffici nemici. Anche da parte cristiana si riaffermò una pirateria attiva. Dopo Lepanto gli occidentali ebbero a disposizione migliaia di prigionieri che furono messi ai remi assicurando, per diversi anni, un motore nuovo alle loro galere. La vittoriosa guerra di Candia, alla metà del XVII secolo, mostra che il vigore delle forze turche era ancora temibile nel Mediterraneo orientale. Tuttavia con l'inizio di una lunga serie di guerre con la Persia, che proseguirono nel Caucaso e in Mesopotamia per tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta della Sublime porta fu messa in parziale disarmo e ridotta.
Inoltre la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile a quella veneziana fino alla fine del XVIII secolo. I morti di nobiltà cattolica vennero sepolti nella chiesa dell'Annunziata a Corfù (spostati dopo il bombardamento dei tedeschi del 13 settembre 1943 al cimitero cattolico di Corfù) mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto Corfioti) furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata "Dei Vechi" e quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù denominata fin da allora "Dei martiri". Molti prigionieri ottomani, in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente. Quindi le navi fecero rientro a Napoli. La bandiera della nave ammiraglia turca di Alì Pascià, presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la "Capitana" e la "Grifona", si trova a Pisa, in quella che era la chiesa di quell'ordine.

Gli armamenti
Lo schieramento cristiano vinse soprattutto grazie alla superiorità dell'equipaggiamento, che compensò la mancanza di esperienza delle truppe imbarcate], decisivo fu anche il vantaggio insito nella collocazione avanzata delle galeazze e l'enorme sproporzione nel numero dei pezzi d'artiglieria . Inoltre la fanteria era dotata di un superiore armamento individuale: i suoi soldati potevano contare sugli archibugi, (come la compagnia di tiratori scelti degli oltre 400 archibugieri di Sardegna), mentre quelli turchi erano ancora armati con archi e dardi, mazze, scuri, spade e giavellotti. La maggior parte dei soldati cristiani indossava corazze, sia del tipo normalmente utilizzato dalla fanteria, sia di modelli (molto diffusi tra i Genovesi) che potevano essere tolte rapidamente se si doveva poi nuotare. I soldati ottomani, e ancor di più quelli barbareschi, preferivano invece indossare armature leggerissime, spesso in cuoio, oppure non indossarle affatto, in modo che se fossero caduti in mare sarebbero stati più liberi nei movimenti.
Il vascello più importante dello schieramento cristiano era la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei rematori. Parzialmente corazzata e pesantemente armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà possono trarre in inganno chi non le conosce, facendole confondere con vascelli da carico: cosa che tra l'altro capitò ai turchi. Solo sei di queste unità rinforzavano lo schieramento cristiano ma furono devastanti sia per le galere nemiche sia per il morale dei loro equipaggi. Con la galeazza si raggiunse l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo essa ne rappresentò anche il canto del cigno. Le galee con la loro propulsione a remi furono progressivamente sostituite da velieri a vela quadra e quindi progressivamente abbandonate.
Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli possedevano un buon rapporto gittata-efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti. Naturalmente quel rapporto peggiorava notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia libertà di manovra.
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento "in caccia". Si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e generalmente più potente e pesante di quelli utilizzati dai vascelli coevi. Il pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi antiuomo. Le galere grosse e le capitane talvolta avevano pezzi girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
L'armamento d'artiglieria delle galere ottomane, e ancor di più di quelle barbaresche, era complessivamente più leggero, poiché i loro capitani facevano grande affidamento sulla velocità, sull'agilità e sulla possibilità di muoversi in acque basse, e quindi non intendevano appesantire i loro scafi. Spesso le loro galere avevano un singolo grosso cannone in caccia (di calibro e potenza superiore a quello delle galere della Lega), e pochissimi pezzi d'accompagnamento. Sia la flotta cristiana sia quella musulmana prediligevano le costose, ma leggere e sicure, artiglierie in bronzo, rari i pezzi in economica (ma pesante e pericolosa) ghisa, per lo più fabbricati a Brescia e nelle Fiandre.
Per quel che riguarda le armi di piccolo calibro, all'importanza della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato. Non bisogna sottovalutare l'arco composito (o arco turchesco appunto) che era l'arma più diffusa tra la fanteria di marina ottomana, esso aveva una gittata e una precisione superiore a quella dell'archibugio, oltre che una velocità di ricarica superiore; si trattava però di un'arma meno letale (moltissimi furono i soldati cristiani feriti, ma non uccisi, e che continuarono a combattere), e non in grado di perforare le pesanti corazze spagnole. Per questo motivo molti giannizzeri erano già stati armati con archibugi e moschetti, di qualità leggermente inferiore però a quelli prodotti in Italia e in Spagna, e con polveri meno efficienti.

Il significato religioso
Come già per la Battaglia di Poitiers e la futura Battaglia di Vienna, la battaglia di Lepanto ebbe un profondo significato religioso. Prima della partenza, il Pontefice Pio V benedice lo stendardo della Lega raffigurante su fondo rosso il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo e sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces, quindi lo consegna al Duca Marcantonio Colonna di Paliano: tale simbolo, insieme con l'immagine della Madonna e la scritta "S. Maria succurre miseris", issato sulla nave ammiraglia Real, sotto il comando del Principe Don Giovanni d'Austria, sarà l'unico a sventolare in tutto lo schieramento cristiano all'inizio della battaglia quando, alle grida di guerra e ai primi cannoneggiamenti turchi, i combattenti cristiani si uniranno in una preghiera di intercessione a Gesù Cristo e alla Vergine Maria.
Anche se l'annuncio della vittoria giungerà a Roma ventitré giorni dopo, portato da messaggeri del principe Colonna, si narra che il giorno stesso della battaglia san Pio V ebbe in visione l'annuncio della vittoria nell'ora di mezzogiorno e che, dopo aver esclamato: "sono le 12, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine Santissima", dette congedo agli astanti, tra i quali era presente il cardinale Cesi ; da allora continua la tradizione cattolica di sciogliere le campane di tutte le chiese alle 12 in punto. La vittoria fu attribuita all'intercessione della Vergine Maria, tanto che Papa Pio V decise di dedicare il giorno 7 ottobre a Nostra Signora della Vittoria successivamente trasformata da Gregorio XIII in Nostra Signora del Rosario,[7] per celebrare l'anniversario della storica vittoria ottenuta, si disse, per intercessione dell'augusta Madre del Salvatore, Maria.

Le conseguenze
La battaglia di Lepanto fu la prima grande vittoria di un'armata o flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano. La sua importanza fu perlopiù psicologica, dato che i turchi erano stati per decenni in piena espansione territoriale e avevano precedentemente vinto tutte le principali battaglie contro i cristiani d'oriente. La vittoria dell'alleanza cristiana non segnò comunque una vera e propria svolta nel processo di contenimento dell'espansionismo turco. Gli ottomani infatti riuscirono già nel periodo successivo a incrementare i propri domini, strappando, fra l'altro, alcune isole, come Creta, ai veneziani. La parabola discendente vissuta dall'impero ottomano nel corso del Seicento, riflette semmai una fase di declino che coinvolse all'epoca tutti i Paesi affacciati nel bacino del Mediterraneo in seguito allo spostamento verso le rotte oceaniche dei grandi traffici internazionali.
In realtà più di un secolo dopo Lepanto i turchi erano ancora sotto le mura di Vienna (1683), mentre Venezia dovette combattere altre lunghe guerre con l'Impero ottomano, perdendo infine il controllo su tutte le isole e i porti che possedeva in Egeo, eccettuate le isole Ionie. Inoltre la flotta ottomana riuscì a sconfiggere quella veneziana presso capo Matapan al principio del Settecento; segno che l'impero, pur in relativa decadenza, continuava a essere una delle principali potenze europee. La scarsa coesione tra i vincitori impedì alle forze alleate di sfruttare appieno la vittoria per ottenere una supremazia duratura sugli Ottomani. Non solo: l'esercito cristiano non riconquistò neppure l'isola di Cipro, che era caduta da appena due mesi in possesso ottomano. Questo a causa del volere di Filippo II, il quale non voleva che i Veneziani acquisissero troppi vantaggi dalla vittoria, visto che essi erano i più strenui rivali del progetto politico spagnolo di dominio della penisola italiana
Nel 1573 la Serenissima fu quindi costretta a firmare un trattato di pace a condizioni poco favorevoli. Il Gran Visir Sokollu, in quell'occasione, disse ai Veneziani che avrebbero potuto fidarsi più degli ottomani che degli altri Stati europei, se solo avessero ceduto al volere del Sultano. Dal canto suo, l'Impero Ottomano, nella persona del sultano, esprimeva all'ambasciatore veneziano a Costantinopoli (presumibilmente un anno dopo Lepanto), le sensazioni della Porta sulla sconfitta: Gli infedeli hanno bruciacchiato la mia barba; crescerà nuovamente
Poco dopo Lepanto, la Porta cominciò effettivamente un'opera di ricostruzione della flotta che si concluse l'anno successivo. A seguito di questo riarmo la marina turca riacquistò la superiorità numerica nei confronti delle potenze cristiane, ma non riuscì a conquistare una sostanziale supremazia nel Mediterraneo, soprattutto nella sua metà occidentale. Le nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in fretta, tanto che l'ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben armate e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita con legname marcio e cannoni mal fusi.
La battaglia di Lepanto ebbe anche importanti conseguenze all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le varie Reggenze barbaresche governavano il Maghreb in nome del Sultano ottomano e sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla sua potente flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la Spagna. Dopo questa battaglia fu chiaro che la flotta turca non era invincibile, mentre la Spagna, pur vittoriosa, era troppo impegnata a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli, e quindi le Reggenze barbaresche "rialzarono la testa", guadagnando spazi d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche contro gli interessi del Sulta.

I Protagonisti
Fonte Wikipedia