martedì 25 agosto 2015

Ca d' Oro

UN GIOIELLO VENEZIANO: LA CA' D'ORO
C’è chi dice che sia uno degli edifici più tipici e inconfondibili di Venezia, uno dei cinque – lascio a voi immaginare quali possano essere gli altri quattro - che rendono immediatamente riconoscibile la città e, in un certo senso, ne costituiscono l’emblema. Di sicuro è uno dei più belli ed ammirati, e non solo in laguna, ma oserei dire nel mondo, un vero e proprio gioiello che, pur in un contesto urbano magico come quello veneziano, in cui i manufatti di inenarrabile bellezza non si possono neppure contare, emerge per la sua squisita fattura e per le decorazioni paragonabili soltanto a quelle del Palazzo Ducale.
Sto parlando della Ca’ D’oro, l’affascinante dimora patrizia in stile gotico fiorito che si impone alla nostra attenzione dalla riva sinistra del Canal Grande. La facciata è un accordo perfetto tra disegno e materia, linee e decori: un gioiello, un prodigio di eleganza e leggerezza, un “divino gioco della pietra e dell’aria”, come ebbe a dire Gabriele D’annunzio, uno che di raffinatezze se ne intendeva. E pensare che quella che vediamo oggi, seppure splendida, è ben altra cosa dalla indescrivibile magione che, col suo mutevole gioco di cromatismi, era giustamente considerata una delle meraviglie dell’architettura gotica di tutta Europa e giustificava in senso letterale il nome con cui è nota a tutt’oggi. Sì, perché Ca’ d’Oro non è una metafora, bensì la precisa e corretta definizione per un edificio interamente dipinto con smalti rossi e azzurri incastonati nell’oro.

E proprio la denominazione, così diversa da quella degli altri palazzi veneziani, che si definiscono solitamente dal nome dei proprietari, lascia capire l’eccezionalità di questa “casa”. Scomparsi oggi quegli ornamenti, possiamo solo immaginare, con enorme rimpianto, quale dovesse essere un tempo l’effetto dei complessi giochi cromatici e dei riflessi di luce agli occhi di chi percorreva il Canalazzo, la strada più bella del mondo. Dove, se le meraviglie si succedono ininterrotte una dopo l’altra, questa spicca su tutte. La Ca’ d’oro risale al XV secolo e in origine era appunto un’abitazione privata, casa da stazio. A volerla fu un ricchissimo mercante appartenente ad una delle famiglie più antiche e potenti di Venezia, Marino Contarini, figlio di quell’Antonio che, fra gli altri prestigiosi incarichi, ebbe anche quello di procuratore di San Marco. Per realizzare questo splendore Marino fece completamente ristrutturare un grandioso edificio in stile veneto bizantino detto Ca’ Granda (Domus Magna) presente su un terreno in zona Santa Sofia che egli aveva comprato dalla famiglia Zen, cui apparteneva la moglie. Non si trattò quindi di un una fabbrica totalmente nuova, ma di un rifacimento sulle fondamenta preesistenti¸ mentre la vecchia costruzione a portico, tipica tipologia dei palazzi signorili veneziani, fu parzialmente integrata nel nuovo palazzo. I libri di conti scrupolosamente annotati da Marino ci permettono di conoscere i nomi di gran parte delle maestranze artefici di quest’opera, che sembra un miracolo, ma, come quasi sempre nel Medioevo, è invece lo straordinario risultato della maestria di architetti, artigiani, lapicidi, e di uno stuolo di operai, il cui nome invece è rimasto ignoto per sempre. L'analisi della documentazione (pubblicata dal Paoletti), ci permette inoltre di seguire passo per passo lo svolgimento di lavori e di comprendere gli intendimenti e la volontà del Contarini, che li seguì con assoluta dedizione e fu il vero e proprio ideatore e, talvolta, persino un collaboratore attivo impegnato a fianco delle maestranze. Apprendiamo, per esempio che l’asimmetria della facciata non è dovuta, come si era ipotizzato un tempo, all’incompletezza del rifacimento, bensì a un a precisa volontà espressa sin dall’inizio, per un palazzo che, a confronto con alcuni altri coevi del primo Quattrocento, risulta di dimensioni piuttosto modeste, ma punta tutto su un apparato decorativo di qualità unica. I primi lavori dovettero iniziare attorno al 1421, come dimostrano alcune quietanze di pagamenti effettuati a tale a "Marco di Amedeo muratore”, e soprattutto a "Maestro Matteo Reverti da Milano lapicida" , già attivo nel Duomo di Milano che probabilmente furono coloro che elaborarono almeno le linee generali del progetto di ristrutturazione. Matteo sarà anche autore della scala scoperta del cortile e del bellissimo traforo della loggia del primo piano, quasi una trina in pietra.

Al 18 genn. 1422 (more veneto) risale il contratto che impegna a lavorare per il Contarini "Zuanne Bon Taiapiera" assieme con il figlio Bartolomeo e a due garzoni, per il Contarini.
In realtà, forse perché i primi lavori durarono più a lungo del previsto, o più probabilmente perché Giovanni Bon e il figlio erano al momento occupati altrove (Giovanni e i garzoni a Ca' Barbaro, Bartolomeo presso la Scuola della Misericordia) l'attività potè effettivamente cominciare solo a metà del 1424. I Bon realizzarono il traforo del portico e si dedicarono al completamento della facciata, con il delicato coronamento a guglie, esempio unico nel suo genere a Venezia. A loro, in particolare a Giovanni Bartolomeo, si deve inoltre una bellissima vera da pozzo di marmo broccatello veronese rosa¬so chiazzato, dove su tre lati, tra un ricco fogliame, sono scolpite le allegorie femminili della Giustizia, della Fortezza e della Carità. Infine, alla Ca’ d’oro lavorò anche Niccolò Romanello: suo è il “fiore”, ovvero il gruppo di foglie col cimiero a forma di pigna che doveva adornare l’ingresso principale, suoi sono i capitelli delle colonne della loggia superiore e quattro capitelli per il finestrato del primo piano. I lavori di abbellimento continuarono ancora per anni, e ancora alla fine degli anni Quaranta non poteva dirsi del tutto terminata, come documentano diverse quietanze di pagamenti per lavori di decorazione e di rifinitura, anche se il grosso impegno di trasformazione della "Domus Magna" in Ca' d'Oro deve ritenersi pressoché ultimato verso la metà degli anni Trenta. Fu infatti nel 1431che si rivestì di marmo tutta la facciata e fu proprio in quegli anni che marino Contarini stipulò un contratto con il pittore francese Jean Charlier, detto Zuane de Franza, per aggiungere alla policromia dei marmi lo splendore dell'oro. La pietra delle merlature, i leoni scolpiti sui capitelli angolari, le decorazioni alla sommità degli archi inflessi delle finestre, tutto fu ricoperto con di foglie d'oro, e ne servirono ben 23.000. Lo Charlier trattò con biacca ad olio i merli in pietra d’Istria, gli archetti e la cornice del coronamento; passò il nero sui fondi, il rosso cinabro sui dentelli e l’oro sui punti di cui si è già detto. Lo stemma dei Contarini, in pietra viva, venne dipinto in oro e azzurro oltremare usando il lapislazzuli, uno dei materiali più costosi dell’epoca. Le rifiniture interne ed esterne erano quasi terminate forse già nel 1434, e sicuramente nel ’37, quando Marino, rimasto vedovo, si risposò con Lucia Corner, dalla quale ebbe il figlio Pietro, che alla morte del padre risulterà erede universale e quindi entrerà in possesso anche della Ca’ d’Oro ormai nel pieno del suo fulgore. Molto di questo noi oggi purtroppo non possiamo più vederlo, perché la storia della Ca’d’Oro, a partire dalla morte di Pietro è un lungo susseguirsi di tristi di episodi di incuria, saccheggio e spoliazioni, almeno fino alla fine del XIX secolo e al provvidenziale intervento del barone Giorgio Franchetti. Ma delle vicissitudini del palazzo, come delle personalità e delle idee degli uomini che, nel bene o nel male, hanno influito sulla sua vicenda, parlo diffusamente altrove. Qui basti ricordare quanto di diceva all’inizio: anche così “depauperato” l’edificio rimane una delle meraviglie del mondo. Ma come si presenta, ora, agli occhi incantati di veneziani e foresti?

La facciata, come abbiamo detto, si caratterizza per la marcata asimmetria tra la parte sinistra, molto elaborata, e l’ala destra, più semplice e uniforme. L’edificio però non è incompiuto: tale struttura fu infatti risultato di una scelta dettata dalla ristrettezza del lotto disponibile. Senza che ne fosse affatto pregiudicato l’equilibrio dell’insieme, perché i pieni e i vuoti sono bilanciati con sapiente maestria e l’effetto complessivo è di estrema leggiadria e delicatezza. A sinistra si sovrappongono tre fasce traforate, ovvero il portico per l'attracco delle barche al piano terra, a forma di loggia, e loggiati esafori ai due piani superiori. Questa triplice ripartizione orizzontale in parti non identiche evidenzia una struttura volutamente “gerarchica”, in quanto il traforo alcuni dettagli decorativi come i capitelli pendenti, sono assenti nel secondo piano. Nell’ ala destra, invece, prevale la muratura con singole aperture isolate e deliziose monofore d’angolo. Nel punto di contatto tra le due ali, all’altezza del secondo piano, compare uno stemma dei Contarini, simile a quel visibile sulla facciata del Palazzo Contarini-Fasan, compare. Oggi è in pietra viva, ma un tempo era ricoperto di preziosi smalti azzurro e oro. L’intera facciata, chiusa sui due lati da colonnine tortili binate, è rivestita di pregiati marmi policromi leggermente venati, con tenui gradazioni di toni, che ne alleggeriscono la materialità, ed è ed è profilata, nelle partiture architettoniche, da inserti in marmo rosso di Verona, utilizzato anche in tre colonnine della seconda loggia. Verticalmente è definita dalla cornice coronata da una linea di gronda a guglie di altezze alternate. Un ultimo aereo diaframma, che si giustappone, con la sua leggerezza, ai forti chiaroscuri delle arcate dei loggia¬ti.
Specialmente per questo coronamento merlato e le forme del traforo del primo piano, l’immagine esterna della Ca’ d’Oro presenta molti punti di analogia con la facciata del Palazzo Ducale, che infatti appartiene alla medesima epoca e stile, il gotico fiorito.
Dalla parte di terra, un alto muro merlato separa la calle dalla corte, cui si accede da un imponente portone sormontato da un angelo che sorregge lo stemma Contarini.
Internamente l'edificio ha una pianta a forma di C articolata attorno ad una corte scoperta, al centro della quale è collocata la grande vera di pozzo in marmo broccatello di Verona, realizzata da Giovanni e Bartolomeo Bon. Come di consueto nelle dimore veneziane, alle ampie logge della facciata corrispondono all'interno dei lunghi saloni, detti portego, che attraversano l'edificio in tutta la sua profondità. Oggi, come si sa, questi saloni sono adibiti a museo, inglobando anche il settecentesco palazzo contiguo, già di proprietà del conte Vettore Giusti del Giardino, dal quale lo Stato Italiano lo acquistò nel 1918 per poter ampliare l'esposizione. Si tratta –credo che sia superfluo precisarlo - della Galleria d’arte intitolata al barone Giorgio Franchetti, che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento spese denaro, idee ed energie per far rinascere la Ca’ d’Oro dalle condizioni di disastrosa rovina in cui era caduta dopo secoli di incuria, disinteresse e talvolta vero e proprio sciacallaggio. Infatti, dopo la morte di Marin Contarini, avvenuta nel 1441, la Ca'd'Oro passava a suo figlio Pietro, defunto nel 1464. Poi il palazzo continuò a passare di mano in mano e più volte fu suddiviso tra diversi proprietari, diventando oggetto di profondi alterazioni e talvolta di vandalismo. Particolarmente deleterio risultò il XIX secolo , soprattutto per uno sciagurato rifacimento dovuto all’architetto Giovanni Battista Meduna, che intervenne drasticamente “modernizzando ”senza alcun rispetto e aggiungndo parti incongrue, soprattutto nella facciata, demolendo invece diverse strutture interne originali.
Sulla storia della Ca’ d’Oro e sulle diverse personalità che a vario titolo e con diversi esiti se ne occuparono, parlo però altrove. Qui basti ricordare che la Ca’ d’Oro che vediamo oggi è quella voluta da Giorgio Franchetti: lui è artefice del salvataggio e di un tenace lavoro di recupero, nel corso del quale egli si dedicò con puntiglio a ritrovare e ripristinare quello che era andato disperso o smembrato, aggiunto incongruamente soprattutto per la scellerata incuria del Meduna. La corte e gli interni furono riportati, per quanto possibile, allo stato quattrocentesco, con l' aggiunta, nel portico terreno, del mosaico pavimentale, realizzato su modello dei mosaici marciani e del rivestimento bicromo in marmo bianco e rosso delle pareti. Questo pavimento, opera originale “all’antica” fortemente voluto dal Franchetti, che disegnò personalmente la ripartizione geometrica e intervenne anche manualmente nella realizzazione, è un vero e proprio capolavoro. Esso copre una superficie di trecento cinquanta metri quadrati utilizzando le tecniche dell'opus sectile e dell'opus tessellatum. I compongono la decorazione si ispirano alle pavimentazioni medievali delle chiese della laguna veneta come la basilica di San Marco a Venezia, la basilica dei Santi Maria e Donato a Murano e la cattedrale di Santa Maria Assunta a Torcello. Molti sono però anche i punti di contatto con le decorazioni cosmatesche del XII e XIII secolo e i temi desunti dal repertorio decorativo bizantino. Franchetti utilizzò marmi e pietre di cavatura moderna, ma scelse le tipologie più note e preziose fin dall’antichità romana, tra cui il porfido rosso antico, il serpentino, il cipollino verde, il giallo antico, il pavonazzetto, il verde antico, il marmo luculleo... Solo il meglio, insomma.
Quanto alla sua collezione, generosamente messa a disposizione del pubblico, che dire? Tutte opere e manufatti di ineguagliabile valore, soprattutto del periodo medievale e rinascimentale, raccolti in una vita di appassionato collezionismo. Nel Portego del primo piano sono riunite opere provenienti per la maggior parte da chiese veneziane e conventi soppressi dopo la caduta della Repubblica. Sul fondo del vasto ambiente è stato allestito un vano architettonico, con pareti in marmi venati e soffitto a cassettoni quattrocentesco, volto a simulare una cappella per l'opera che il barone Franchetti considerava una delle più importanti della sua collezione: il San Sebastiano di Andrea Mantegna.
Nel lungo portego del secondo piano sono esposti affreschi staccati provenienti da cicli pittorici di edifici pubblici e religiosi veneziani: tutte opere collocate in origine all'esterno, salvate da degrado e forse dalla distruzione proprio grazie a questa rimozione dalla sede originaria.
Ma neanche su questo argomento voglio dilungarmi: la Ca’ d’Oro, con i suoi tesori, va vista e basta.
                                                                                                                      Daniela Palamidese
Daniela Palamidese laureata in lettere (filologia) a Ca' Foscari. Insegna in un istituto superiore di Mestre, dove vive.



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