UN
GIOIELLO VENEZIANO: LA CA' D'ORO
C’è
chi dice che sia uno degli edifici più tipici e inconfondibili di
Venezia, uno dei cinque – lascio a voi immaginare quali possano
essere gli altri quattro - che rendono immediatamente riconoscibile
la città e, in un certo senso, ne costituiscono l’emblema. Di
sicuro è uno dei più belli ed ammirati, e non solo in laguna, ma
oserei dire nel mondo, un vero e proprio gioiello che, pur in un
contesto urbano magico come quello veneziano, in cui i manufatti di
inenarrabile bellezza non si possono neppure contare, emerge per la
sua squisita fattura e per le decorazioni paragonabili soltanto a
quelle del Palazzo Ducale.
Sto parlando della Ca’ D’oro,
l’affascinante dimora patrizia in stile gotico fiorito che si
impone alla nostra attenzione dalla riva sinistra del Canal Grande.
La facciata è un accordo perfetto tra disegno e materia, linee e
decori: un gioiello, un prodigio di eleganza e leggerezza, un “divino
gioco della pietra e dell’aria”, come ebbe a dire Gabriele
D’annunzio, uno che di raffinatezze se ne intendeva. E pensare che
quella che vediamo oggi, seppure splendida, è ben altra cosa dalla
indescrivibile magione che, col suo mutevole gioco di cromatismi, era
giustamente considerata una delle meraviglie dell’architettura
gotica di tutta Europa e giustificava in senso letterale il nome con
cui è nota a tutt’oggi. Sì, perché Ca’ d’Oro non è una
metafora, bensì la precisa e corretta definizione per un edificio
interamente dipinto con smalti rossi e azzurri incastonati nell’oro.
E proprio la denominazione, così diversa da quella degli altri
palazzi veneziani, che si definiscono solitamente dal nome dei
proprietari, lascia capire l’eccezionalità di questa
“casa”. Scomparsi oggi quegli ornamenti, possiamo solo
immaginare, con enorme rimpianto, quale dovesse essere un tempo
l’effetto dei complessi giochi cromatici e dei riflessi di luce
agli occhi di chi percorreva il Canalazzo, la strada più bella del
mondo. Dove, se le meraviglie si succedono ininterrotte una dopo
l’altra, questa spicca su tutte. La Ca’ d’oro risale al XV
secolo e in origine era appunto un’abitazione privata, casa da
stazio. A volerla fu un ricchissimo mercante appartenente ad una
delle famiglie più antiche e potenti di Venezia, Marino Contarini,
figlio di quell’Antonio che, fra gli altri prestigiosi incarichi,
ebbe anche quello di procuratore di San Marco. Per realizzare
questo splendore Marino fece completamente ristrutturare un grandioso
edificio in stile veneto bizantino detto Ca’ Granda (Domus Magna)
presente su un terreno in zona Santa Sofia che egli aveva comprato
dalla famiglia Zen, cui apparteneva la moglie. Non si trattò
quindi di un una fabbrica totalmente nuova, ma di un rifacimento
sulle fondamenta preesistenti¸ mentre la vecchia costruzione a
portico, tipica tipologia dei palazzi signorili veneziani, fu
parzialmente integrata nel nuovo palazzo. I libri di conti
scrupolosamente annotati da Marino ci permettono di conoscere i nomi
di gran parte delle maestranze artefici di quest’opera, che sembra
un miracolo, ma, come quasi sempre nel Medioevo, è invece lo
straordinario risultato della maestria di architetti, artigiani,
lapicidi, e di uno stuolo di operai, il cui nome invece è rimasto
ignoto per sempre. L'analisi della documentazione (pubblicata dal
Paoletti), ci permette inoltre di seguire passo per passo lo
svolgimento di lavori e di comprendere gli intendimenti e la volontà
del Contarini, che li seguì con assoluta dedizione e fu il vero e
proprio ideatore e, talvolta, persino un collaboratore attivo
impegnato a fianco delle maestranze. Apprendiamo, per esempio che
l’asimmetria della facciata non è dovuta, come si era ipotizzato
un tempo, all’incompletezza del rifacimento, bensì a un a precisa
volontà espressa sin dall’inizio, per un palazzo che, a confronto
con alcuni altri coevi del primo Quattrocento, risulta di dimensioni
piuttosto modeste, ma punta tutto su un apparato decorativo di
qualità unica. I primi lavori dovettero iniziare attorno al 1421,
come dimostrano alcune quietanze di pagamenti effettuati a tale a
"Marco di Amedeo muratore”, e soprattutto a "Maestro
Matteo Reverti da Milano lapicida" , già attivo nel Duomo di
Milano che probabilmente furono coloro che elaborarono almeno le
linee generali del progetto di ristrutturazione. Matteo sarà anche
autore della scala scoperta del cortile e del bellissimo traforo
della loggia del primo piano, quasi una trina in pietra.
Al 18
genn. 1422 (more veneto) risale il contratto che impegna a lavorare
per il Contarini "Zuanne Bon Taiapiera" assieme con il
figlio Bartolomeo e a due garzoni, per il Contarini.
In
realtà, forse perché i primi lavori durarono più a lungo del
previsto, o più probabilmente perché Giovanni Bon e il figlio erano
al momento occupati altrove (Giovanni e i garzoni a Ca' Barbaro,
Bartolomeo presso la Scuola della Misericordia) l'attività potè
effettivamente cominciare solo a metà del 1424. I Bon
realizzarono il traforo del portico e si dedicarono al completamento
della facciata, con il delicato coronamento a guglie, esempio unico
nel suo genere a Venezia. A loro, in particolare a Giovanni
Bartolomeo, si deve inoltre una bellissima vera da pozzo di marmo
broccatello veronese rosa¬so chiazzato, dove su tre lati, tra un
ricco fogliame, sono scolpite le allegorie femminili della Giustizia,
della Fortezza e della Carità. Infine, alla Ca’ d’oro
lavorò anche Niccolò Romanello: suo è il “fiore”, ovvero il
gruppo di foglie col cimiero a forma di pigna che doveva adornare
l’ingresso principale, suoi sono i capitelli delle colonne della
loggia superiore e quattro capitelli per il finestrato del primo
piano. I lavori di abbellimento continuarono ancora per anni, e
ancora alla fine degli anni Quaranta non poteva dirsi del tutto
terminata, come documentano diverse quietanze di pagamenti per lavori
di decorazione e di rifinitura, anche se il grosso impegno di
trasformazione della "Domus Magna" in Ca' d'Oro deve
ritenersi pressoché ultimato verso la metà degli anni Trenta. Fu
infatti nel 1431che si rivestì di marmo tutta la facciata e fu
proprio in quegli anni che marino Contarini stipulò un contratto con
il pittore francese Jean Charlier, detto Zuane de Franza, per
aggiungere alla policromia dei marmi lo splendore dell'oro. La pietra
delle merlature, i leoni scolpiti sui capitelli angolari, le
decorazioni alla sommità degli archi inflessi delle finestre, tutto
fu ricoperto con di foglie d'oro, e ne servirono ben 23.000. Lo
Charlier trattò con biacca ad olio i merli in pietra d’Istria, gli
archetti e la cornice del coronamento; passò il nero sui fondi, il
rosso cinabro sui dentelli e l’oro sui punti di cui si è già
detto. Lo stemma dei Contarini, in pietra viva, venne dipinto in oro
e azzurro oltremare usando il lapislazzuli, uno dei materiali più
costosi dell’epoca. Le rifiniture interne ed esterne erano
quasi terminate forse già nel 1434, e sicuramente nel ’37, quando
Marino, rimasto vedovo, si risposò con Lucia Corner, dalla quale
ebbe il figlio Pietro, che alla morte del padre risulterà erede
universale e quindi entrerà in possesso anche della Ca’ d’Oro
ormai nel pieno del suo fulgore. Molto di questo noi oggi purtroppo
non possiamo più vederlo, perché la storia della Ca’d’Oro, a
partire dalla morte di Pietro è un lungo susseguirsi di tristi di
episodi di incuria, saccheggio e spoliazioni, almeno fino alla fine
del XIX secolo e al provvidenziale intervento del barone Giorgio
Franchetti. Ma delle vicissitudini del palazzo, come delle
personalità e delle idee degli uomini che, nel bene o nel male,
hanno influito sulla sua vicenda, parlo diffusamente altrove. Qui
basti ricordare quanto di diceva all’inizio: anche così
“depauperato” l’edificio rimane una delle meraviglie del mondo.
Ma come si presenta, ora, agli occhi incantati di veneziani e
foresti?
La
facciata, come abbiamo detto, si caratterizza per la marcata
asimmetria tra la parte sinistra, molto elaborata, e l’ala destra,
più semplice e uniforme. L’edificio però non è incompiuto: tale
struttura fu infatti risultato di una scelta dettata dalla
ristrettezza del lotto disponibile. Senza che ne fosse affatto
pregiudicato l’equilibrio dell’insieme, perché i pieni e i vuoti
sono bilanciati con sapiente maestria e l’effetto complessivo è di
estrema leggiadria e delicatezza. A sinistra si sovrappongono tre
fasce traforate, ovvero il portico per l'attracco delle barche al
piano terra, a forma di loggia, e loggiati esafori ai due piani
superiori. Questa triplice ripartizione orizzontale in parti non
identiche evidenzia una struttura volutamente “gerarchica”, in
quanto il traforo alcuni dettagli decorativi come i capitelli
pendenti, sono assenti nel secondo piano. Nell’ ala destra,
invece, prevale la muratura con singole aperture isolate e deliziose
monofore d’angolo. Nel punto di contatto tra le due ali,
all’altezza del secondo piano, compare uno stemma dei Contarini,
simile a quel visibile sulla facciata del Palazzo Contarini-Fasan,
compare. Oggi è in pietra viva, ma un tempo era ricoperto di
preziosi smalti azzurro e oro. L’intera facciata, chiusa sui
due lati da colonnine tortili binate, è rivestita di pregiati marmi
policromi leggermente venati, con tenui gradazioni di toni, che ne
alleggeriscono la materialità, ed è ed è profilata, nelle
partiture architettoniche, da inserti in marmo rosso di Verona,
utilizzato anche in tre colonnine della seconda loggia. Verticalmente
è definita dalla cornice coronata da una linea di gronda a guglie di
altezze alternate. Un ultimo aereo diaframma, che si giustappone, con
la sua leggerezza, ai forti chiaroscuri delle arcate dei
loggia¬ti.
Specialmente per questo coronamento merlato e le forme del traforo del primo piano, l’immagine esterna della Ca’ d’Oro presenta molti punti di analogia con la facciata del Palazzo Ducale, che infatti appartiene alla medesima epoca e stile, il gotico fiorito.
Dalla parte di terra, un alto muro merlato separa la calle dalla corte, cui si accede da un imponente portone sormontato da un angelo che sorregge lo stemma Contarini.
Internamente l'edificio ha una pianta a forma di C articolata attorno ad una corte scoperta, al centro della quale è collocata la grande vera di pozzo in marmo broccatello di Verona, realizzata da Giovanni e Bartolomeo Bon. Come di consueto nelle dimore veneziane, alle ampie logge della facciata corrispondono all'interno dei lunghi saloni, detti portego, che attraversano l'edificio in tutta la sua profondità. Oggi, come si sa, questi saloni sono adibiti a museo, inglobando anche il settecentesco palazzo contiguo, già di proprietà del conte Vettore Giusti del Giardino, dal quale lo Stato Italiano lo acquistò nel 1918 per poter ampliare l'esposizione. Si tratta –credo che sia superfluo precisarlo - della Galleria d’arte intitolata al barone Giorgio Franchetti, che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento spese denaro, idee ed energie per far rinascere la Ca’ d’Oro dalle condizioni di disastrosa rovina in cui era caduta dopo secoli di incuria, disinteresse e talvolta vero e proprio sciacallaggio. Infatti, dopo la morte di Marin Contarini, avvenuta nel 1441, la Ca'd'Oro passava a suo figlio Pietro, defunto nel 1464. Poi il palazzo continuò a passare di mano in mano e più volte fu suddiviso tra diversi proprietari, diventando oggetto di profondi alterazioni e talvolta di vandalismo. Particolarmente deleterio risultò il XIX secolo , soprattutto per uno sciagurato rifacimento dovuto all’architetto Giovanni Battista Meduna, che intervenne drasticamente “modernizzando ”senza alcun rispetto e aggiungndo parti incongrue, soprattutto nella facciata, demolendo invece diverse strutture interne originali.
Sulla storia della Ca’ d’Oro e sulle diverse personalità che a vario titolo e con diversi esiti se ne occuparono, parlo però altrove. Qui basti ricordare che la Ca’ d’Oro che vediamo oggi è quella voluta da Giorgio Franchetti: lui è artefice del salvataggio e di un tenace lavoro di recupero, nel corso del quale egli si dedicò con puntiglio a ritrovare e ripristinare quello che era andato disperso o smembrato, aggiunto incongruamente soprattutto per la scellerata incuria del Meduna. La corte e gli interni furono riportati, per quanto possibile, allo stato quattrocentesco, con l' aggiunta, nel portico terreno, del mosaico pavimentale, realizzato su modello dei mosaici marciani e del rivestimento bicromo in marmo bianco e rosso delle pareti. Questo pavimento, opera originale “all’antica” fortemente voluto dal Franchetti, che disegnò personalmente la ripartizione geometrica e intervenne anche manualmente nella realizzazione, è un vero e proprio capolavoro. Esso copre una superficie di trecento cinquanta metri quadrati utilizzando le tecniche dell'opus sectile e dell'opus tessellatum. I compongono la decorazione si ispirano alle pavimentazioni medievali delle chiese della laguna veneta come la basilica di San Marco a Venezia, la basilica dei Santi Maria e Donato a Murano e la cattedrale di Santa Maria Assunta a Torcello. Molti sono però anche i punti di contatto con le decorazioni cosmatesche del XII e XIII secolo e i temi desunti dal repertorio decorativo bizantino. Franchetti utilizzò marmi e pietre di cavatura moderna, ma scelse le tipologie più note e preziose fin dall’antichità romana, tra cui il porfido rosso antico, il serpentino, il cipollino verde, il giallo antico, il pavonazzetto, il verde antico, il marmo luculleo... Solo il meglio, insomma.
Quanto alla sua collezione, generosamente messa a disposizione del pubblico, che dire? Tutte opere e manufatti di ineguagliabile valore, soprattutto del periodo medievale e rinascimentale, raccolti in una vita di appassionato collezionismo. Nel Portego del primo piano sono riunite opere provenienti per la maggior parte da chiese veneziane e conventi soppressi dopo la caduta della Repubblica. Sul fondo del vasto ambiente è stato allestito un vano architettonico, con pareti in marmi venati e soffitto a cassettoni quattrocentesco, volto a simulare una cappella per l'opera che il barone Franchetti considerava una delle più importanti della sua collezione: il San Sebastiano di Andrea Mantegna.
Nel lungo portego del secondo piano sono esposti affreschi staccati provenienti da cicli pittorici di edifici pubblici e religiosi veneziani: tutte opere collocate in origine all'esterno, salvate da degrado e forse dalla distruzione proprio grazie a questa rimozione dalla sede originaria.
Ma neanche su questo argomento voglio dilungarmi: la Ca’ d’Oro, con i suoi tesori, va vista e basta.
Specialmente per questo coronamento merlato e le forme del traforo del primo piano, l’immagine esterna della Ca’ d’Oro presenta molti punti di analogia con la facciata del Palazzo Ducale, che infatti appartiene alla medesima epoca e stile, il gotico fiorito.
Dalla parte di terra, un alto muro merlato separa la calle dalla corte, cui si accede da un imponente portone sormontato da un angelo che sorregge lo stemma Contarini.
Internamente l'edificio ha una pianta a forma di C articolata attorno ad una corte scoperta, al centro della quale è collocata la grande vera di pozzo in marmo broccatello di Verona, realizzata da Giovanni e Bartolomeo Bon. Come di consueto nelle dimore veneziane, alle ampie logge della facciata corrispondono all'interno dei lunghi saloni, detti portego, che attraversano l'edificio in tutta la sua profondità. Oggi, come si sa, questi saloni sono adibiti a museo, inglobando anche il settecentesco palazzo contiguo, già di proprietà del conte Vettore Giusti del Giardino, dal quale lo Stato Italiano lo acquistò nel 1918 per poter ampliare l'esposizione. Si tratta –credo che sia superfluo precisarlo - della Galleria d’arte intitolata al barone Giorgio Franchetti, che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento spese denaro, idee ed energie per far rinascere la Ca’ d’Oro dalle condizioni di disastrosa rovina in cui era caduta dopo secoli di incuria, disinteresse e talvolta vero e proprio sciacallaggio. Infatti, dopo la morte di Marin Contarini, avvenuta nel 1441, la Ca'd'Oro passava a suo figlio Pietro, defunto nel 1464. Poi il palazzo continuò a passare di mano in mano e più volte fu suddiviso tra diversi proprietari, diventando oggetto di profondi alterazioni e talvolta di vandalismo. Particolarmente deleterio risultò il XIX secolo , soprattutto per uno sciagurato rifacimento dovuto all’architetto Giovanni Battista Meduna, che intervenne drasticamente “modernizzando ”senza alcun rispetto e aggiungndo parti incongrue, soprattutto nella facciata, demolendo invece diverse strutture interne originali.
Sulla storia della Ca’ d’Oro e sulle diverse personalità che a vario titolo e con diversi esiti se ne occuparono, parlo però altrove. Qui basti ricordare che la Ca’ d’Oro che vediamo oggi è quella voluta da Giorgio Franchetti: lui è artefice del salvataggio e di un tenace lavoro di recupero, nel corso del quale egli si dedicò con puntiglio a ritrovare e ripristinare quello che era andato disperso o smembrato, aggiunto incongruamente soprattutto per la scellerata incuria del Meduna. La corte e gli interni furono riportati, per quanto possibile, allo stato quattrocentesco, con l' aggiunta, nel portico terreno, del mosaico pavimentale, realizzato su modello dei mosaici marciani e del rivestimento bicromo in marmo bianco e rosso delle pareti. Questo pavimento, opera originale “all’antica” fortemente voluto dal Franchetti, che disegnò personalmente la ripartizione geometrica e intervenne anche manualmente nella realizzazione, è un vero e proprio capolavoro. Esso copre una superficie di trecento cinquanta metri quadrati utilizzando le tecniche dell'opus sectile e dell'opus tessellatum. I compongono la decorazione si ispirano alle pavimentazioni medievali delle chiese della laguna veneta come la basilica di San Marco a Venezia, la basilica dei Santi Maria e Donato a Murano e la cattedrale di Santa Maria Assunta a Torcello. Molti sono però anche i punti di contatto con le decorazioni cosmatesche del XII e XIII secolo e i temi desunti dal repertorio decorativo bizantino. Franchetti utilizzò marmi e pietre di cavatura moderna, ma scelse le tipologie più note e preziose fin dall’antichità romana, tra cui il porfido rosso antico, il serpentino, il cipollino verde, il giallo antico, il pavonazzetto, il verde antico, il marmo luculleo... Solo il meglio, insomma.
Quanto alla sua collezione, generosamente messa a disposizione del pubblico, che dire? Tutte opere e manufatti di ineguagliabile valore, soprattutto del periodo medievale e rinascimentale, raccolti in una vita di appassionato collezionismo. Nel Portego del primo piano sono riunite opere provenienti per la maggior parte da chiese veneziane e conventi soppressi dopo la caduta della Repubblica. Sul fondo del vasto ambiente è stato allestito un vano architettonico, con pareti in marmi venati e soffitto a cassettoni quattrocentesco, volto a simulare una cappella per l'opera che il barone Franchetti considerava una delle più importanti della sua collezione: il San Sebastiano di Andrea Mantegna.
Nel lungo portego del secondo piano sono esposti affreschi staccati provenienti da cicli pittorici di edifici pubblici e religiosi veneziani: tutte opere collocate in origine all'esterno, salvate da degrado e forse dalla distruzione proprio grazie a questa rimozione dalla sede originaria.
Ma neanche su questo argomento voglio dilungarmi: la Ca’ d’Oro, con i suoi tesori, va vista e basta.
Daniela
Palamidese
laureata in lettere (filologia) a Ca' Foscari. Insegna
in un istituto superiore di Mestre, dove vive.
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