venerdì 12 giugno 2015

Caccia al toro. Ovvero la punizione del Patriarca

VENEZIA. UNA VARIANTE DELLA CACCIA AL TORO, 
OVVERO LA PUNIZIONE DEL PATRIARCA

Una variante della “caccia” (caxa o caza in veneziano) era quella che si concludeva in Piazzetta San Marco il Giovedì Grasso, caratterizzata da un risvolto meno ludico e più storico, benchè altrettanto crudele della precedente. Era cioè una festa celebrativa che ricordava in particolare un’importante vittoria della Serenissima contro Ulrico II, patriarca di Aquileia.
Questo Ulrico (o Volrico) II era stato eletto nel settembre 1161 ed aveva ottenuto l'investitura feudale da Federico Barbarossa a Pavia il 29 settembre, che gli impose però l'obbligo di aderire all'antipapa Vittore IV; dopo breve esitazione Ulrico aveva accettato. 
Il contrasto con Venezia si verificò nel 1162, a seguito di una bolla del Papa Adriano IV che assegnava tutta la Dalmazia al Patriarcato di Grado. Approfittando della guerra in corso tra la Serenissima e le città di Padova e Ferrara, Ulrico, aiutato da feudatari della Carinzia e del Friuli, assalì la città di Grado e costrinse alla fuga il patriarca Enrico Dandolo. La sua speranza era naturalmente quella di estendere il proprio potere su quella città. 
Ma figurarsi se Venezia stava a guardare. Ci fu la guerra, dove la città dispiegò tutta la sua forza navale e e Ulrico fu sconfitto per mare insieme ai dodici feudatari a lui alleati. Il doge, che era allora Vitale Michiel II, avrebbe desiderato vendetta, ma finì per accogliere l’intercessione del Papa. Condotti a Venezia, i colpevoli furono rilasciati; Venezia però chiese come risarcimento che ogni anno per il Giovedì Grasso il Patriarca di Aquileia mandasse al Doge un toro, dei pani e dodici maiali ben pasciuti.
Con intento denigratorio, quindi, gli animali venivano accolti in Palazzo Ducale e trattati come prigionieri, posti sopra a delle ricostruzioni lignee rappresentanti i castelli friulani, e infine erano formalmente condannati a morte dalla magistratura. La sentenza veniva eseguita in piazza San Marco, affidando a dei cani inferociti il compito di attaccare e quando le povere bestie giacevano sfinite, venivano macellate. Le operazioni del “processo” venivano eseguite da rappresentanti della Corporazione dei fabbri (favri), mentre l’uccisione degli animali era affidata a dei macellai (becheri), che, con grande maestria, dovevano produrre in pubblico il taglio netto della testa del toro, con cui era posta fine allo spettacolo. 
Scrive infatti lo storico Pietro Morari nella sua “Storia di Chioggia”: [...] si serra il toro fra et entro un steccato o stangata de travi e doppo haverli lasciato contra diversi cani, uno alla volta, compare un huomo con un spadone a due mani e va contro ‘l toro che è sciolto et in tre colpi le taglia la testa; e se non lo fa, bisogna che cedi il campo ad un altro; doppo ivi in piazza si balla e si danza quasi in allegrezza e trionfo della vittoria». I pani e le carni macellate venivano poi distribuiti al tutta la popolazione, compresi i nobili impoveriti, cioè i cosidetti barnaboti.
Questa usanza fu abolita nel 1420: il Friuli ormai era passato sotto la dominazione di Venezia, e l’evento, almeno nella sua originaria forma derisoria, non aveva più tanto senso. La festa del Giovedì Grasso trovò allora il suo culmine in altri passatempi, soprattutto nelle acrobatiche imprese di funamboli e saltombanchi, o nel famoso “volo del Turco”, spettacolo che si tenne per la prima volta nel 1548 , quando un equilibrista turco (appunto) con bilanciere in mano salì camminando su una fune da una barca in mezzo al bacino S.Marco sino alla cella del campanile della basilica.
La tradizione della caccia, sebbene privata della sua componente più maliziosa, però non sparì completamente, anche se della sua origine storica rimase solo la partecipazione del Doge. 
In effetti, le cacce ai tori si realizzarono fino al 1802, quando furono proibite dopo che in Campo Santo Stefano, a causa del panico provocato da un toro imbizzarrito, crollò una gradinata costruita per l'occasione davanti a Palazzo Morosini, provocando morti e feriti.
 Daniela Palamidese.

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